Contro l’alternanza

ALTROCHÉ TRAGEDIA!

Dopo la morte di due studenti in stage si parla del ruolo delle attività lavorative dentro i percorsi di formazione scolastici. Meglio dire, piuttosto, che ne parla un pezzo di società, perché chi nella scuola ha progettato e sostenuto politicamente l’idea del lavoro (di questo lavoro, del lavoro reale dentro l’istruzione) minimizza e ne fa una questione di aziende virtuose o meno. Parlano di “tragedia” (che equivale ad appioppare al destino cinico e baro le responsabilità della morte di Lorenzo e Giuseppe) e ci attaccano: cattivi noi, che ricamiamo assiomi politici ottusi sulla morte di due ragazzi. Ma queste morti non sono fatalità, come non lo sono tutte le altre morti sul lavoro (quasi 4 al giorno in questo inizio ’22). La responsabilità di queste morti è in capo a una classe dirigente che negli ultimi trent’anni ha insistito per incuneare dentro la scuola una certa dimensione lavorativa, che corrisponde per lo più, nel caso dei corsi di formazione professionali o anche degli istituti tecnici e dei professionali, all’abitudine al lavoro subordinato. La scuola è misurata solo nella sua capacità di addestrare al lavoro.
Tale ossessione e permea tra l’altro anche il discorso pedagogico nella scuola: “Se arrivi in ritardo al lavoro mica ti puoi giustificare…”; “se ti comporti così in azienda vedrai…”; “se non studi non troverai mai lavoro…”. Purtroppo sono frasi che si sentono spesso tra le mura scolastiche, enunciate da insegnanti, che non hanno nulla per motivare gli studenti che non sia la minaccia di un futuro di miseria e disoccupazione. Che tristezza e che rabbia!
Tristezza e rabbia si amplificano di fronte alla morte di Lorenzo e Giuseppe, così come alle varie morti sul lavoro. Altroché tragedia!

ABOLIAMO L’ALTERNANZA

Cominciamo dunque dalle basi: chiediamo l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, poiché rappresenta una scuola che invece di esplorare criticamente la realtà la legittima e ne riproduce le violenze.
Ricordiamoci, inoltre, che l’alternanza (nelle sue varie forme) non è retribuita.
Non si lavora gratis poiché la prestazione non retribuita partecipa ad abbassare il valore del lavoro, e dunque a creare rapporti di forza che, una volta concluso il percorso di istruzione, mi imporranno salari da fame. Ciò equivale ad educare allo sfruttamento e a riprodurlo.
Non si lavora gratis perché il discorso sulla formazione va invertito: non è un favore che l’azienda fa agli studenti ma, al contrario, un modo di scaricare i costi della formazione delle aziende sulla collettività (mentre i benefici vanno ai privati) e sul tempo che gli studenti dovrebbero avere a disposizione per fare scuola.

Ora, è evidente che i legislatori che negli ultimi decenni hanno introdotto l’alternanza lo hanno fatto in coerenza con l’indirizzo politico che i documenti europei hanno segnato. L’idea di “mondo reale” che emerge è tutta schiacciata sul lavoro, e le competenze che esso deve stimolare sono quelle del docile lavoratore aziendalista: flessibilità, obbedienza, adempitività, resilienza.
Forte della difficoltà crescente di trovare un lavoro decente, il piano divulgativo delle riforme ha contribuito a legittimarne i contenuti: “la scuola deve mettere in relazione gli studenti con il mondo del lavoro”; “le scuole devono essere in relazione con il territorio” (dove “territorio” equivale sempre più spesso ad “aziende del territorio”): sono mantra incontestati.
Chi ha scritto le riforme ha, inoltre, un’idea fortemente classista della realtà: non si capirebbe altrimenti perché le ore di alternanza sono inversamente proporzionali alla composizione di classe che tendenzialmente frequenta i vari indirizzi di scuola superiore (al professionale le ore di alternanza sono 210, al tecnico 150, al liceo 90). Chi si deve formare di più al lavoro subordinato è certamente chi già è socialmente destinato al lavoro salariato. Da questo punto di vista si osserva bene il ruolo ideologico di riproduzione sociale che la scuola ha nel nostro mondo.

La scuola di massa, tuttavia, non è sempre stata ossessionata dal lavoro. Lo è da due/tre decenni, ossia da quando la controrivoluzione neoliberista ha rotto qualsiasi argine e le classi dirigenti hanno deciso che le conquiste della scuola per tutt* andassero radicalmente ridimensionate in ragione di interessi di crescita del profitto e della flessibilità economica. Appena nata, sull’onda delle mobilitazioni operaie e studentesche degli anni ’50/’60, la scuola di massa era un frutto acerbo e contraddittorio della lotta di classe: istruzione per tutt* significava che tutt* dovevano avere il diritto di accedere a ciò che in precedenza era ad esclusivo uso delle élites. Ma attenzione: il processo di democratizzazione dell’istruzione non è stato condotto fino in fondo, le istituzioni deputate alla trasmissione della cultura hanno continuato ad avere un’idea della cultura stessa fortemente elitista – seppur in un contesto di massa. Ciò è vero per l’università e lo è ancor di più per la scuola, incapace di trasformare i contenuti adeguandoli alle classi sociali che la frequentavano. Una delle conseguenze è sotto gli occhi di tutt*, tanto più evidente quanto più ci si confronta con strati sociali “bassi”: molt* student* non riescono a fare proprio il potenziale emancipativo della cultura, non riescono a soggettivarla, anzitutto a causa della loro estrazione sociale.

Secondo questa visione, la scuola astrae; la cultura è lontana dalla vita quotidiana; il sapere ha le mani pulite. E allora è chiaro che, nel mondo che conosciamo, la soluzione più semplice sia mandare al lavoro una fetta sempre più grande di student* e costruire un discorso ideologico per cui i saperi acquisiti a scuola non servono a nulla, poiché teorici, appartenenti ad una cultura alta e snob (si leggano le prime righe di ciò che pensa Renzi della scuola. L’opposizione che viene a crearsi è dunque: Scuola – mondo teorico, impacciato come un amico nerd e un po’ aristocratico / Lavoro – mondo pratico, scafato, esperienziale, l’amico che la sa lunga. Niente di più ideologico.

E tuttavia tale manicheismo ideologico porta alla luce qualcosa di vero, continuiamo a percepire come “alta” un’attività organizzativa e astratta e come “bassa” una tecnica o concreta. È una simile contrapposizione che determina la cinica richiesta delle famiglie e degli studenti (tanto più forte quanto più appartenenti alle classi più basse, tendenzialmente) di “formare al lavoro”. Cinica, ma realista: che fare una volta usciti da un percorso di istruzione “classico” se sono nato in un contesto che non mi ha fornito agganci a mestieri ben retribuiti, relazioni che permettano di realizzare la mia formazione “come persona” in serenità? Se parto da dietro, allora meglio compiere un percorso dai fini pragmatici, che mi permetta quantomeno di galleggiare dignitosamente nella lotta per la vita neoliberista. Di fronte a questa richiesta è possibile accampare ancora le ragioni illuministiche dell’uomo astratto, del cittadino attivo?
Non sappiamo se esista una via d’uscita da questa impasse. Tuttavia vale la pena di provarci, e forse il nodo è tornare a pensare la relazione tra sapere, scuola e “mondo reale”. Quel nodo che oggi brucia più che mai.

viteE se uno dei modi per uscirne fosse, paradossalmente, approfondire il rapporto tra la scuola e la materialità del mondo, ivi compresa l’attività umana che chiamiamo “lavoro”? Attenzione: non lavoro “subordinato”, non lavoro aziendale, frutto di una precisa organizzazione politica dei mezzi di produzione e delle forze che li controllano, bensì “lavoro” come attività necessaria (inevitabile?) alla vita materiale e culturale della società.
Una vite serve all’intera società, dal sottoproletariato all’aristocratica borghesia che di questi tempi si fa i giri nello spazio. A produrla, però, è solo una parte della società, mentre l’altra organizza il lavoro. Quanto sapere, quanta scuola in potenza c’è dietro ad una vite? Studiare le complesse trame che stanno dietro alla vita materiale della società, e dunque capire anche come si trasforma la materia, l’energia (e quali trame simboliche – politiche, linguistiche ecc…- si nascondono) significa riconoscere la dignità delle capacità umane nella loro interezza, senza dover distinguere tra persona astratta e persona produttiva, e soprattutto offre uno strumento politico per disarticolare l’opposizione tra scuola e mondo reale, o tra scuola e lavoro. Fornisce cioè un sapere di classe, perché riconosce quella parte della società che produce la vite, e non solo i valori aziendalisti di chi organizza la produzione. Consente altresì di spingere in avanti quel processo di democratizzazione del sapere novecentesco che ha subito negli anni ’90 una battuta d’arresto e che anzi è regredito, senza però opporre ai processi in corso un’obiezione astratta – e lontana dalla sensibilità di parte della popolazione studentesca – come “bisogna formarsi come persona”. In fondo è questa l’idea di egemonia gramsciana: un’antitesi che ingloba la tesi e che diventa sintesi a sua volta. E’ ciò che ha fatto il capitalismo fino ad ora con molte delle rivendicazioni politiche novecentesche. Sarebbe ora di invertire la rotta.