Come Rete Bessa siamo stat* all’assemblea della rete NazioAnale TFQ, partecipando al tavolo scuola. L’incontro è stato entusiasmante e pieno di stimoli che ancora una volta ci spingono ad esplorare e costruire percorsi di resistenza all’eteronorma che innerva il nostro sistema educativo, la scuola e persino il nostro stesso modo di essere educatrici/educatori.
Pubblichiamo qui il report del tavolo scuola che si trova anche sul sito della rete marciona. Buona lettura!
Il 7 e 8 novembre la rete nazioanale tfq, nata nel contesto di Marciona2020 durante la prima fase pandemica, ha deciso di convocarsi come rete dopo l’esperienza del Coordinamento Pride tfq della scorsa estate, che ha costituito l’avvio di un percorso politico collettivo transterritoriale nazioanale attraversato da singol*, realtà organizzate, collettivi e altre reti territoriali.
Durante l’assemblea si sono tenuti diversi tavoli di discussione e tra questi un focus sulla questione Scuola, ora più che mai al centro del dibattito pubblico. Abbiamo scelto di condividere le riflessioni emerse considerata l’urgenza dell’argomento e della presa di parola transfemminista queer.
TAVOLO SCUOLA
Il tavolo scuola ha decostruito le retoriche sull’istruzione come campo “neutro” o come “servizio” identificando la sua funzione di riproduzione sociale istituzionalizzata. Abbiamo riflettuto su cosa significhi questo proprio ora nel contesto pandemico e in regime di didattica a distanza, sia dal punto di vista della “cura” che dal punto di vista delle tecnologie. Questo ci ha permesso di smascherare le iniziative “dall’alto” su genere e parità e allo stesso tempo affinare le nostre strategie per contrastare binarismo di genere, razzismo classismo nell’educazione. Sono emerse proposte operative che ci porteranno a continuare questa discussione in modo più allargato.
a) Scuola e lavoro riproduttivo: l’educazione è (anche) lavoro riproduttivo? Welfare? Lavoro di cura? Lavoro e basta? Quale è il rapporto/conflitto tra le lotte per il diritto all’istruzione e le lotte delle soggettività femminilizzate messe al lavoro dal sistema educativo?
In tempo di pandemia si sono polarizzate due distinte visioni del sistema educativo: la scuola come welfare/lavoro riproduttivo o la scuola come “didattica pura”. In particolare questa dicotomia si è evidenziata nel dibattito sull’apertura o chiusura in tempo di pandemia, in modi alquanto diversi a seconda della visione complessiva dell’educazione oppure la stessa visione ha portato a posizioni contrapposte.
Un primo esempio è rappresentato dalla contrapposizione tra il diritto alla salute degli insegnanti e l’idea che la scuola sia una priorità, quando genitori e insegnanti sembravano sostenere uno o l’altro, mettendo in discussione il diritto di sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori a settembre, quando le richieste di un’apertura in sicurezza e con investimenti di denaro e spazi erano state disattese. Per noi la relazione tra welfare e lavoro riproduttivo è inscindibile, e crediamo che la decostruzione di questa dicotomia sia necessaria per riconoscere e connettere le lotte sindacali all’interno dell’educazione. Un secondo esempio, più “interno” ai femminismi e transfemminismi riguarda la funzione del sistema educativo, dove alcune considerano la scuola come una forma di erogazione di welfare o come un “servizio” mentre altre vedono l’importanza della scuola nella sua funzione pedagogica, educativa e di costruzione di conoscenze. Questo porta a non comprendere l’esigenza, espressa da tantu di noi, di tenere aperte le scuole fin quando possibile, in questo periodo pandemico, poiché si scambia la rivendicazione per un diritto universale all’istruzione, il valore della relazione nel sistema educativo (non solo relazione con chi insegna ma, soprattutto relazione tra pari e costruzione di socialità sempre più complesse a seconda dei gradi di istruzione) con mera complicità con Confindustria e con l’esigenza di mantenere alti livelli di produzione a discapito della salute pubblica. Riteniamo che queste dicotomie siano solo astratte e non tengono conto della materialità dell’educazione come istituzione, da un lato, e processo di formazione di socialità al contempo: si tratta di vera e propria riproduzione sociale istituzionalizzata e organizzata. Non riconoscere la dimensione della riproduzione sociale tra le funzioni della scuola, concentrandosi sulle funzioni di “servizio”, non permette di comprendere come l’alternativa alla scuola resti esclusivamente la famiglia, u
na delle istituzioni che da sempre riconosciamo come sede della violenza di e del genere. La visione della scuola come mero welfare è pericolosa perché finisce per considerare la scuola come erogatrice di un “servizio” e le “famiglie” e studenti come “utenti”, e questo si avvicina molto alla visione dei comitati NOGENDER che ritengono sia diritto dei genitori influire sull’offerta didattica, in particolare per ostacolare e sabotare qualsiasi progetto di educazione alla sessualità, affettività, e genere. Allo stesso tempo la visione della scuola come “didattica pura” dimentica la dimensione del lavoro “riproduttivo” o “di cura (lavoro affettivo, relazionale) pagato” che in essa si svolge, come se questo avesse meno dignità del lavoro didattico-educativo. La volontà di alcuni femminismi di cancellare la dimensione riproduttiva dal “lavoro” dell’educazione sembra provenire dall’interiorizzazione di un certo emancipazionismo oppure da una certa misoginia che valorizza la dimensione produttiva del sapere a discapito di quella della “cura”. Sono anni che mettiamo al centro la riproduzione sociale nelle nostre lotte ed in qualche modo la scuola ci sembra luogo privilegiato d’osservazione e intervento perché è il fulcro della riproduzione sociale istituzionalizzata, ed infatti è qui che si giocano le maggiori battaglie su un dispositivo di potere per noi al centro dell’analisi e delle lotte: il genere, all’intersezione con classe/razza/abilità.
Viviamo da decenni lo smantellamento della scuola pubblica, con pochi investimenti e precariato diffuso. Ora più che mai, con la chiusura e il passaggio alla DAD si evidenzia come l’esclusione avvenga all’intersezione tra status economico e fenomeni di razzializzazione delle e degli studenti.
La battaglia sulla redistribuzione non riguarda solo il denaro ma anche le risorse tecnologiche – da anni facciamo battaglia su internet pubblico accessibile, ad esempio. La DAD richiede accesso universale alla tecnologia, ma quale tecnologia? Le grandi piattaforme come Google già offrono a scuole, insegnanti e student* infrastrutture, spazio e tecnologie gratuitamente e siamo a un passo dalla distribuzione gratuita di tablet da parte di Google o altre multinazionali allu studentu di tutte le scuole, ma ci dovremmo chiedere verso quale scenario si sta muovendo la scuola tentando di rimediare al digital divide appoggiandosi a grandi multinazionali: dovremmo tenere conto del fatto che esistono tecnologie libere e open source. Come avviene la distribuzione? Sta iniziando una strana selezione meritocratica in alcune realtà, chi sa utilizzare i device li riceve e chi mostra di non saperli usare adeguatamente invece resta escluso, questo è un altro lato dell’ingiustizia e arbitrarietà diffusa in questo momento pandemico.
Allo stesso tempo dobbiamo tenere conto del diffuso analfabetismo digitale e lo stato emergenziale in cui versa la scuola in questo momento. La questione allora diventa, più che il contrasto in toto alle piattaforme proprietarie, come usare in maniera creativa questi strumenti che ci vengono dati, per ridurre il danno e per aprire spazi digitali relazionali in particolare per quell* studenti con certificazioni, bollini, etichette, fragilità socio economiche? Ad esempio: fare pressioni sulle case editrici per avere i libri online. Se riuscissimo a mappare i nostri bisogni riusciremmo a fare autoformazioni per aiutarci a limitare i danni. Sulla tecnologia resta un problema, se ne parla sempre da un punto di vista meramente tecnico, mentre andrebbe affrontata anche dal punto vista umanistico per imparare ad agire la tecnologia e non essere “agiti” da questa, o alienat* attraverso di essa.
b) Scuola e lavoro “del genere”: come il gender entra nelle scuole ma nel modo sbagliato? Come riappropriarci del diritto di parola su questo nel sistema attuale (linee guida parità di genere/educazione civica/legge Zan ecc…)
Viviamo da anni le conseguenze di una postura politica precisa dall’alto rispetto alla possibilità di occuparsi di questioni di genere nelle scuole: l’ambiguità delle direttive/linee guida/leggi che non permettono di capire cosa si può o non si può fare e isolano le persone che tentano di lavorare in questo senso.
Lo abbiamo visto accadere con le “Linee Guida Educare al rispetto: per la parità tre sessi, la prevenzione della violenza di genere di tutte le forme di discriminazione” del 2015, dove si afferma che “tra i diritti e doveri e tra le conoscenze da trasmettere non rientrano in nessun modo le ideologie Gender”, senza specificare a cosa esattamente si riferisca il testo. Lo vediamo accadere oggi con la modifica al comma 3 dell’art.6 della Legge Zan, che, se da una parte istituisce una giornata nazionale contro le discriminazioni, dall’altro rimanda all’approvazione delle singole scuole, previa firma del “patto di corresponsabilità” da parte dei genitori, ogni tipo di intervento, anche solo rituale o celebrativo in questo senso. E se all’articolo 8 si rimanda all’UNAR per l’ elaborazione di strategie triennali per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere, noi non dimentichiamo la Strategia Nazionale LGBT del 2013 (http://www.unar.it/wp-content/uploads/2017/12/LGBT-strategia-unar-17_24.pdf ) mai applicata, o le raccomandazioni europee (http://www.comune.torino.it/politichedigenere/bm~doc/raccomandazionecmrec20105.pdf. Quindi se da un lato accogliamo il tentativo, dall’altro continuiamo a chiedere più del ddl Zan e soprattutto delle linee definitive che non lascino spazio ai no gender e che non continuino a lasciarci con le spalle completamente scoperte, ricattabili e obbligati, dove riusciamo, a un’iper-esposizione.
Genere (e castrazione del genere) “si fa” dalle scuole dell’infanzia fino alla fine del ciclo scolastico, in modo informale e normativo passando per l’etero-sessismo implicito a tutto il sistema educativo e alla società. Il genere “si fa” a scuola costantemente nelle discipline, nella direzione dell’eteronorma, in particolare nelle discipline scientifiche e tecniche, perché spesso anche insegnando la materia si riproduce l’eteronorma. Talvolta questo è più insidioso dell’annoso problema degli insegnanti di religione cattolica, i quali affrontano in maniera esplicita le questioni di cui non dovrebbero occuparsi. Il ddl Zan formalizza che le progettualità di contrasto a questa costruzione normativa del genere devono continuare a superare una serie di passaggi burocratici.
Ovviamente anche noi facciamo e disfiamo il genere a scuola, abbiamo delle strategie e vorremmo implementarne altre. Da un lato approfittiamo di ogni “interstizio” che si dà nella programmazione ufficiale. I progetti su bullismo permettono di parlare di sessismo, omolesbobitransfobia. Focus su cyberbullismo è un altro modo di fare hacking per parlare di genere nelle tecnologie, per parlare della violenza e discriminazione nelle tecnologie, salvo che la maggioranza delle scuole preferisce una lezione della polizia postale a interlocutori “scomodi”. Anche una generica titolazione “educazione alle differenze”, a seconda del contesto, può legittimare il discorso sul genere.
Ma dovremmo essere in grado di attraversare altri “momenti” della programmazione come l’educazione alla salute, dove a parlare di HIV e salute riproduttiva ci sono le ASL, e il grande progetto dell’Educazione Civica. Per quest’ultima materia, nuova di 33 ore annue sono state indicate delle Linee Guida di stampo nazionalista, e serve l’impegno del singolo ad accollarsi quella che si chiama “funzione strumentale” per poterci mettere mano. C’è chi lo ha fatto, cercando di minimizzare le ore obbligatorie sulla “storia della bandiera d’Italia” e puntando sull’Agenda 2030 dell’ONU sulla sostenibilità, che permette di intervenire criticamente su “accesso all’istruzione”, “uguaglianza di genere”, “riduzione delle disuguaglianze tra paesi del mondo”, “ambiente”, ecc… Va d’altro canto presa in considerazione la crescente richiesta da parte delle/degli studenti di affrontare questi temi anche se questo riguarda solo pochi settori/indirizzi dell’istruzione secondaria, come i licei in aree urbane.
Esistono pratiche condivise di/per studenti transgenere e sarebbe il caso di avviare una mappatura, in grado di connettere queste esperienze o utile alla condivisione di materiali e strategie.
Ci sono scuole invece, come istituti professionali “maschili” dove essere una persona LGBTQIA+ è addirittura pericoloso per l’incolumità psico-fisica. Un’altra strategia è quella di invitare dei visiting-teacher LGBTQIA+ a fare lezioni incentrate sulle competenze e non sul gender(!). Così come resta fondamentale ragionare sull’implied learner quando si fanno i programmi per le materie, perché abbiamo interiorizzato che chi impara è neutro, cioè maschio bianco eterocis. Pertanto bisogna individuare e contrastare atteggiamenti eterosessisti espliciti ed impliciti nell’insegnamento delle discipline (rimuovere “l’implied learner”: maschio, bianco, etero, cis…)
Ma abbiamo bisogno di qualcosa di più delle strategie che singolarmente possiamo mettere in campo e che presuppongono coraggio e contesti non troppo escludenti e reazionari. Abbiamo già tentato di mettere in condivisione materiali ma la modalità “drive” si è mostrata poco funzionale perché diventa un’accumulazione di materiali poco ordinata e quindi poco fruibile. Ciò non toglie che vada trovata una modalità più efficace. Inoltre i “materiali” che vengono accettati nelle scuole devono avere legittimità accademica, non possono essere autoprodotti nel momento in cui usciamo dalla lezione alla singola classe ma cerchiamo di implementare cambiamenti più strutturali attraverso progetti, funzioni strumentali, ecc. Inoltre chi si relaziona alle scuole con “progetti” dall’esterno segnala gravi difficoltà ad interfacciarsi come realtà e collettivi informali. Per questo riteniamo necessario trovare forme di output dell’attivismo, forme “istituenti” che siano capaci di impattare a livello istituzionale, canali per cambiare le istituzioni. Avere un soggetto informato capace di relazionarsi in maniera dialettica e conflittuale con la scuola potrebbe essere tatticamente importante. Vorremmo quindi organizzare incontri per capire come dare una forma sia legale, quali sono le priorità e gli obiettivi, come avviene la formalizzazione burocratica.