Che fine hanno fatto i secondi? – Viaggio per il mondo alla ricerca di un tempo senza ansia valutativa


Il mondo sta cambiando e la scuola con esso. Ma non è tutto nuovo quello che stiamo vedendo. Nelle nuove parole d’ordine e nei mezzi che utilizziamo si nascondono vecchie idee ora pronte ad esplodere. L’idea di ranking, il fideismo tecnologico, l’ansia valutativa. Occorre farsi un bel viaggetto per capire cosa succede e come reagire. Mettetevi comodi: è un viaggio in tre tappe. Oggi pubblichiamo la prima puntata (la seconda si trova qui).

 

EPISODIO 1 – La DAD in California

Integrati! Anzi no: apocalittici! Anzi no integrati!

La ministra Azzolina a maggio 2020 dichiarava che la dad era stata un grande successo. La stessa ha poi affermato (gennaio 2021) che la dad non funzionava più.
Poco da preoccuparsi, dal momento che oggi abbiamo un Ministro nuovo di zecca… Solo che Patrizio Bianchi è stato in realtà molto vicino alla ex-Ministra. Lo abbiamo visto in azione il 9 Giugno, mentre presentava le sue proposte per la scuola post-lockdown in qualità di Coordinatore del Comitato esperti che ha affiancato Azzolina (l’audizione è ancora visibile qui). Di quell’audizione suggeriamo l’analisi pubblicata da ROARS. Sebbene recentemente Bianchi abbia – anche lui- sollevato dubbi sulla DAD, è facile capire come l’impianto del suo discorso sia molto legato al digitale, e più in generale al privato.

Agli Stati Generali della Scuola Digitale (SGSD) si osservava che, mentre all’indomani del lockdown c’è stato un grande impegno da parte dei/delle prof. nella dad, in un secondo momento questa è apparsa come il più grande dei problemi della scuola.

Tutto questo spettro di posizioni sembra rispecchiare la nota dicotomia di Umberto Eco tra apocalittici e integrati. È come se che tutto il mondo della scuola sia passato dal primo polo – una posizione di entusiasmo eccessivo nei confronti della dad – al secondo, vedendo quindi in essa tutto il male del mondo. E noi dove ci collochiamo?

“Scusi, lei insegna?”

Ci fossero anche dei/delle docenti a discutere di questo tema, forse il discorso sarebbe differente. Nessun* si fa sfiorare dal sospetto che il rigetto della didattica a distanza possa venire dalle “sensate esperienze” degli insegnanti (come fa notare De Michele in un suo articolo), mentre sembrerebbe più saggio fermarsi a metà tra i due poli, e non essere poi cosi pessimisti, anche perché, comunque, come ci fanno notare dagli SGSD, “dobbiamo fare i conti con l’ambiente digitale”.

Certo, che qualche problema la DAD lo abbia avuto lo ammettono anche le relatrici degli SGSD, ma, secondo loro, laddove la dad non ha funzionato è perché non eravamo preparat*. Tant’è vero che ci siamo dovuti inventare dei nomi nuovi per cose che esistevano già: DAD per e-learning, DDI per blended learning. Anche i registri si sono aggiornati: alle assenze e ai ritardi si sommavano le assenze parziali di quegli studenti che si addormentavano alla prima ora e alla seconda smettevano di rispondere all’appello. Senza contare i vari PIA e PAI, inventati all’occasione del lockdown. Tutta roba da recuperare in un POI mai ben definito.

“Andrà tutto bene”

È il delirio, si sa. Ma non per questo dobbiamo scoraggiarci e temere l’apocalisse informatica: la virtù sta nel mezzo e noi, virtuosi, cerchiamo la virtù del virtuale. In fondo il ragionamento è chiaro: se la dad non ha funzionato è perché la scuola non era adatta al digitale. Basta cambiare la scuola, cambiare la didattica, cercare una pedagogia adatta e “andrà tutto bene”. Gambe in spalla, allora. Cambiamo pedagogia, cerchiamone una nuova.

Ma cambiare pedagogia significa cambiare l’idea di società ad essa sottesa. Siamo pure dispost* a cambiare tutto, ma prima di farlo in nome del digitale – di questa specifica forma di digitale che ci viene richiesta- chiediamoci che idea di società ci sarà mai a monte di una pedagogia adatta alla DAD, alla DDI, alla blended o a quello che ci viene suggerito nelle circolari. Chiediamoci dove ci portano queste idee. Pare ci portino in California.

Le retoriche sul digitale e l’ideologia californiana

Più che una novità totale, la DAD sembra finalmente l’occasione che la scuola italiana aspetta da anni. La strategia di Lisbona 2000 aveva come obiettivo quello di fare dell’Europa la società della conoscenza. Pena: perdere il primato nella competizione globale. Cosa che peraltro è avvenuta.
Chiaramente la scuola ha un ruolo determinante in questo processo e in una società dove la conoscenza è sempre più fluida, diffusa, e dove ognuno può costruirsi il proprio percorso cognitivo individuale, la tecnologia è la chiave per il successo. Poco importa che le piattaforme di adesso siano progettate per non farci uscire dal loro ristretto ambito allo scopo di estrarre valore dalle nostre azioni. È ciò che Massimo Airoldi ha definito “cultura algoritmica”:

«quando quattro miliardi di stimoli automatizzati, derivanti dall’incessante elaborazione computazionale delle nostre tracce digitali, deformano le lenti attraverso cui vediamo e immaginiamo la realtà che ci circonda» (“L’output non calcolabile”, in AA. VV. Datacrazia, 2018).

Non è questo l’esatto contrario di quello che dovrebbe essere un percorso di ricerca e costruzione della conoscenza?

Sotto i colpi della pandemia finalmente crollano le resistenze del corpo docente a questo cambiamento epocale: il digitale entra a scuola, indietro non si torna: finalmente sono spalancate le porte del progresso (ops! non progresso: innovazione!).
Certo, sono porte fatte di materiali estratti in Congo grazie al lavoro minorile, ma che importa? Mica ci si arriva in Erasmus!

Raccolta manuale del cobalto ad opera di ragazzini (fonte: The Guardian)

Della materialità di tutto ciò se ne perde traccia. Anzi, il discorso diventa tenace e suggestivo, come si vede chiaramente dagli interventi degli SGSD (ci vuole stomaco però e non dite che non vi avevamo avvertit*).

Certo, a 20 anni da Lisbona è possibile o addirittura probabile che un laureato faccia il rider e non il “creativo” (qualunque cosa questa parola voglia dire), mentre gli psicologi sono al lavoro per capire che danni abbia fatto la dad agli/alle student*.

Vale davvero la pena di andare a fondo nella decostruzione del discorso egemone sul digitale, cosa efficacemente fatta in diversi testi e riassunta molto bene nel libro di Gui “Il digitale a scuola”. Ci limitiamo ad evidenziare alcune connessioni, che già Gui ha rilevato, tra la retorica ormai trentennale sul digitale (che si è trasferita in modo evidente al discorso sulla dad) e l’ideologia neoliberista.

Lo stesso Gui, infatti, riprende Barbrook e Cameron per definire come l’ideologia californiana sia entrata in Europa. Secondo questi due studiosi (qui un loro articolo tradotto in italiano), l’ideologia californiana è “un mix di cybercultura, liberismo economico e controcultura libertaria”, e “combina lo spirito libertario degli hippies con lo zelo imprenditoriale degli yuppies”. In un ottica di determinismo tecnologico, in cui la semplice immissione di tecnologie dispiega automaticamente un potenziale di liberazione, questa ideologia illustra in maniera estremamente semplice e suggestiva un complesso di cambiamenti che sarebbero altrimenti difficili da leggere in una cornice unitaria.
Sempre secondo Barbrook e Cameron, questa tendenza non ha perso tempo a penetrare anche il discorso politico europeo ed è possibile trovarne tracce esplicite nel Bangemann report del Consiglio Europeo del 1994 (è sulla base di documenti del genere che molti finanziamenti europei sono stati orientati nella direzione dell’investimento tecnologico).

Codin’ in USA

Come tutte le rivoluzioni tecnologiche poi, il portato visionario ha investito anche il mondo dell’educazione al punto che la tecnologia non è parsa più solo un supporto, qualcosa in grado di migliorare il processo di apprendimento, ma addirittura libererebbe un potenziale creativo finora inimmaginabile.

La mascotte di scratch, noto linugaggio di programmazione didattico

Chi lavora nella scuola primaria conosce bene l’entusiasmo e l’aura che circonda il mondo del coding, termine-ombrello per contenere tutto ciò che ha a che fare con l’informatica, anche se in realtà si dovrebbe riferire solo alla codifica di algoritmi. Non è difficile rintracciare elementi ideologici di questa natura nella pedagogia ad esso legata e sviluppata, ad esempio, da Resnick e ancora prima in quella di Papert.

Proprio sul coding vale la pena di soffermarsi: è interessante infatti sottolineare che i presupposti didattici su cui l’insegnamento della programmazione ai bambini si basa sono ampiamente condivisibili. Ciò che colpisce è l’atteggiamento spesso militante di chi si impegna in questo contesto: sembra che tutt* debbano imparare a programmare a prescindere e questo genera un proliferare di attività di divulgazione in merito (ma anche investimenti di magnanimi inquinatori) che non ha eguali per altre metodologie didattiche altrettanto valide. Per esempio: suonare è istruttivo quanto il coding, ma Carl Orff non è mai andato in giro a raccontare di come avesse convinto sua mamma ad imparare la marimba.
E’ qui che l’elemento ideologico sembra emergere con forza: qualunque cosa legata alla tecnologia assume il carattere di una missione capitale e non più rimandabile.

Giochi di parole

Il linguaggio in questo contesto è fondamentale: parole come hackathon, coding, edutainment ormai pervadono anche le indicazioni ministeriali (lo segnala, ad esempio, Boarelli nel suo libro “Contro l’ideologia del merito“).
E d’altronde, non è sulla base di scelte lessicali che agli SGSD è stata decretata la scarsa preparazione della scuola italiana?
Attenzione! Non è snobismo linguistico, anglofobia: è il significato e le pratiche connesse che ci importano. Non è un caso che tutte queste parole rimandino alla sfera ludica. Nel marketing aziendale si chiama gamification: rendere tutto simile a un gioco in modo da tenere l’utente “engaged”.

E a scuola? Se è documentato che la capacità attentiva si riduce fortemente davanti ad uno schermo, siamo noi docenti che dobbiamo rendere le lezioni più accattivanti, più simili a webinar, magari con infografiche e animazioni. Non educatori ma influencer: questo è e-learning, mica dad, sfigat*!
Non ci sentiamo sporch* a osservare chi riesce a svolgere lezioni su Tik Tok, ciò che ci preoccupa è semmai lo stile di sapere in pillole, parcellizzato e rigorosamente friendly che viene veicolato.
Richieste di sforzarsi a questi modelli arrivano adesso anche dai dirigenti, ma fin da subito ci sono stati collegh* solerti che hanno fatto di youtube la loro aula.

Questo sfumare del confine tra lavoro (o studio in questo caso) e gioco o tempo libero è tipico dell’ideologia californiana. Barbrook e Cameron:

“the cultural divide between the hippie and the ‘organisation man’ has now become rather fuzzy.”

 

Fine del primo episodio. Ora con calma: se diciamo gastronerie non offendetevi, siamo solo insegnanti e di errori ne facciamo parecchi. Le cose basta dirle: scriveteci! La prossima volta vi portiamo a Parigi negli anni Settanta, saremo in Italia surfando negli ultimi 4 decenni e poi ci allacceremo alle menti che la scuola italiana intende produrre.