Che fine hanno fatto i secondi? – Viaggio per il mondo alla ricerca di un tempo senza ansia valutativa – Ep. 2

bruce_willisQuesta è la seconda tappa del nostro viaggio. Il primo episodio lo trovate qui.
Oggi si va a Parigi, a Roma, a Bruxelles e a Palermo, dove sentiremo gente che si esprime con accento fiorentino. Mentre pubblichiamo, contribuiamo a costruire lo sciopero indetto dai COBAS scuola, dai CNPS del 26 Marzo, cui Priorità Alla Scuola sta dando ampio sostegno. Tra i temi dello sciopero anche il modo in cui si prevede di investire il Recovery Fund. Attualmente il disegno del Governo è quello di dare seguito alla logica che critichiamo in questi post.

Quindi…ci vediamo in piazza.

A Bologna l’appuntamento è per le 10 in Piazza del Nettuno.

EPISODIO 2 – Un ERASMUS a Parigi

Dalla California ci spostiamo a Parigi, anni Settanta. Echi del ’68, degli studenti in piazza. In Italia le piazze sono ancora caldissime. C’è uno scontro che è politico, generazionale, ideologico, artistico, di genere. Finirà nel ’78, no! nell’80! no nell’82 con Pertini che applaude a Zoff, campioni del mondo, “po po po poppo po po”. Si fa in tempo a sperimentare il tempo pieno, istituire il divorzio e l’aborto. La tecnologia ormai ha sostituito molti lavoratori e lavoratrici in molte fabbriche. Si libera un sacco di tempo, cosa avviene in quel nuovo tempo è argomento non da poco.
Uno noto studioso si mette a studiare le tesi di un cumulo di ordoliberali tedeschi degli anni ’50 e avvisa: «hanno vinto loro! Occhio che è la nostra vita a essere sottoposta a sfruttamento»
– Dici che lavoreremo di più?
– Parbleu! Dico che sta svanendo la differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro.
– In parole povere?
In Nascita della biopolitica, Foucault dice che il mondo sta cambiando e che la nostra intera vita, le nostre scelte, i nostri movimenti producono valore, soldi che circolano, ma solo nelle tasche di pochi: nessuno ci paga per questo.

Poco più di trent’anni dopo, un movimento studentesco chiamato Onda prende questa idea e la porta nelle piazze. Ci dovete dare il reddito che sia garantito/universale e poche storie: ci state sfruttando e non lo state dicendo. Già da anni, d’altronde, la finanza fa fruttare le scelte di tutti noi causando nuove forme di sfruttamento che ancora fatichiamo a vedere con chiarezza. Movimenti come Non Una Di Meno e le reti LGBTQI+ ripropongono questa visione e la portano nelle piazze e nei loro slogan. Ma a parte queste eccezioni, è un grande mistero dove sia finita, nell’ultimo anno, la parte dell’Onda che è entrata nelle scuole: anni a parlare di capitalismo cognitivo e poi, quando lo schemino imparato e ripetuto nelle assemblee esplode, questi argomenti non ritornano e trovano pochissima eco.

La vita su (neoliber)istagram

Nel passaggio dall’Onda al chiringuito si afferma definitivamente un altro problema. La crescita esponenziale di Internet ha fornito un nuovo strumento di cattura. I nostri tablet, pc, smartphone, orologi (pardon: DPI) forniscono tonnellate di dati che vengono accumulati e studiati. La stessa pandemia è un’occasione clamorosa per le grandi corporazioni: lo studio di quello che stiamo facendo tutti i giorni finisce immagazzinato, catalogato e analizzato, i nostri click fruttano soldi, i nostri dati sono venduti.
Non c’è legge sulla privacy che ci possa difendere: siamo nel flusso, qualunque cosa facciamo. Non abbiamo saperi e pratiche tanto condivise da poterci difendere. E qualcuno gioca più sporco di altri.

Sono anni che l’account Google è reso obbligatorio per docenti e student*. Generazioni di adolescenti vengono educate all’idea che “Google” sia sinonimo di “mail”, “motore di ricerca”, “browser”. E la chiamiamo scuola “pubblica”.
Il tentativo di mantenere le relazioni con la scuola, specialmente a marzo 2020, è passato tramite chat di Whatsapp, gli studenti adorano Instagram, i matusa come noi hanno ancora Facebook. E Zuckerberg gode e guadagna. Nelle nostre buste-paga, i soldi che ci deve non ci sono. Eppure la nostra vita frutta denaro 24 ore su 24.
A dir la verità Foucault spiegava una cosa più complicata, che paradossalmente include questa opzione. Ma come quando si gioca a poker e si mettono sul tavolo 3 assi, prima di calare il quarto per non svelare la tattica, ci viene di chiedere: “Basta?”.

Non si esce vivi dagli anni Ottanta…

Reagan e Thatcher danzano insieme al ballo infernale e i diavoli applaudono. I loro movimenti librano nel mondo gemme di terrore e odore di zolfo che arrivano fino a Parigi. L’Europa sta accelerando la sua costruzione, tocca ripensare le basi e quindi la scuola. Dopo anni di gestazione lo European Round Table of Industrialist (ERT) pubblica un documento che riguarda la scuola in cui si identifica l’istruzione come un nodo strategico. Bene. Quindi bisogna investirci. Bene. Tuttavia, «l’industria ha soltanto una modestissima influenza sui programmi didattici». Come? Sì, sì, perdonateci, ma la scuola dimostra «un’insufficiente comprensione della realtà economica, degli affari e della nozione di profitto». Sì, ma. Zitti, vanno attivate delle contromisure. Tipo? Il teleapprendimento, il teleinsegnamento e la sperimentazione dei software didattici.

Un attimo: pensiamoci. Abbiamo appena conquistato il tempo pieno, fateli rifiatare questi bambini. Sì, sì, noi ci prepariamo. Nel 1990 la Commissione Europea ci dice:

«L’insegnamento a distanza è particolarmente utile per assicurare un insegnamento e una formazione redditizi»

Com’è andata? Facciamo un salto in avanti. Andiamo a Bergamo, a fine Novembre 2019. Agli Stati Generali della Scuola digitale, Stefano Ghidini (all’epoca di Edugroup) ci dice serenamente:

«Sette-Otto anni fa […] vi abbiamo erroneamente riempito di tecnologie senza ascoltare ciò che le scuole veramente avevano bisogno di implementare. C’è stata una fase successiva, probabilmente un altro errore: i fornitori hanno cercato di fare da formatori all’interno delle scuole. Il Ministero e le scuole ci chiedevano la formazione (che si avvicinava troppo spesso alla formazione didattica), per cui entravamo in sovrapposizione con un ruolo che [voi docenti] sicuramente sapevate fare meglio di noi»

L’anno dopo è Ghedini stesso a dire che con la Dad, dall’inizio del Covid si è aperta una clamorosa differenza tra scuole Serie A e di Serie B.
È andata bene, no?

… ma se sopravvivi ci pensano i venti a finirti

Quindi ora? La scuola ha migliorato la propria “comprensione della realtà economica, degli affari e della nozione di profitto”?
– “Che vuoi fare dopo scuola?”
– “Lo startupper, prof!”
In un contesto che ha conosciuto la crisi aperta nel 2008, la gestione della crisi a botte di troika, una pandemia che ormai dura da più di un anno nonché il fallimento di un numero sterminato di piccole aziende e un esercito di precar*, questa è la visione cui ci si appiglia per immaginare la scuola del futuro.
L’idea che, grazie alle tecnologie, un* student* possa ricavarsi da solo il proprio percorso di apprendimento individualizzato pone fortemente l’accento sull’originalità del prodotto, sulla creatività: una buona idea (e voglia di lavorare, s’intende) basta a lanciarci sul mercato globale.

La prospettiva della start-up risulta estremamente attraente per un* student* anche per quel mix tra freak e uomo d’impresa che caratterizzerebbe il membro della “classe virtuale” della bay area. Autonomia nel lavoro, alto valore aggiunto a fronte di un basso investimento iniziale (il mito di Google nel garage), e sopratutto: un lavoro divertente in un posto circondato da gente sorridente e simpatica (scivoli nella sede svizzera di Google, altalene nella start-up siciliana amata anche da Renzi: un colosso la prima, un capannone vuoto, da qualche anno, la seconda).
Perché il tasso di fallimento delle start-up è in effetti elevatissimo: e il sistema ne necessita di molte per poter prosperare.

startup

Bill Gates rileva la start-up di Homer

Da qui la necessità, come ci fa notare Consoli qui, di diffondere “una pedagogia dell’intraprendenza e dell’innovazione”: solo che non si tratta semplicemente di introdurre l’imprenditorialità a scuola, ma di spingere gli/le student* a pensare – a pensarsi – come piccole imprese, a “strutturare la propria soggettività in tal senso”.
– E se falliamo?
– SSSST! Silenzio!

Si direbbe che come comprensione della nozione di profitto non c’è male.

E quanto ad “influenza dell’industria sui programmi didattici”, come stiamo messi?
Una risposta è nel rapporto “Restart, italia!”, citato a anche da Consoli, rapporto in cui si invita ad “intervenire[…]in maniera puntuale sui ragazzi, direttamente nei luoghi della formazione – scuola e università”.

System restart in 10, 9, 8…

E con “Restart, italia!” ancora un altro salto nel tempo: alla penultima imminente apocalisse, al penultimo governo tecnico, al penultimo Supermario. E a Corrado Passera che ha commissionato la stesura del report.
Il documento non è l’unico né il più recente saggio di questo genere letterario pulp, ma spicca per un brano che vale la pena di citare per intero:

si potrebbe pensare a un nuovo modello di tesi di laurea. Gli studenti potrebbero scegliere di chiudere il loro ciclo di studi universitari da startupper: al posto di una discussione di tesi farebbero quello che in gergo si chiama elevator pitch, ossia il tentativo di convincere il proprio capo “in ascensore” – per la durata che prende la salita o la discesa – sulla bontà e potenzialità della propria idea.


Sembrava di poter passare la vita in spiaggia a bere piña colada: una mano che scrive codice, l’altra che regge la noce di cocco. E invece. Una mano trema, l’altra allarga il nodo alla cravatta, prendi fiato, inizi a parl – ding! – siamo al piano: “non ho tempo, torna in ufficio!”.
Il percorso scolastico finisce in ascensore: pochi piani, poco tempo. Davvero troppo poco tempo.
Vorremmo tanto riavviare il sistema, sul PC funziona. Ma la scuola, anche quella digitale, non è un PC.

Noi, qui, ora

Macerie d’imprese e nessun futuro smagliante: cosa ci resta della scuola digitale, la scuola del futuro?

La rivoluzione educativa non è avvenuta: ormai è ampiamente documentato che la semplice iniezione di dispositivi nel sistema scolastico ha avuto risultati nulli a livello di apprendimento. Laddove vi sono stati dei miglioramenti, sono lievi e comunque non è possibile distinguere se derivino dall’uso della tecnologia in quanto tale o dal cambio di metodologia didattica. E questo non sorprende: gli investimenti sul digitale a scuola non sono stati fatti su solide basi documentali (evidence-based), ma sull’onda dell’entusiamo tecno-ottimista (value-based), entusiasmo che si accompagnava anche alla retorica emergenziale presente, ad esempio, nel report Bangemann: se non facciamo presto l’Europa perderà il treno della rivoluzione digitale.
Nessuna rivoluzione quindi: semmai, l’introduzione delle tecnologie digitali ha inasprito divario tra chi aveva le competenze per poter trarre vantaggio da queste tecnologia e chi ne era privo. Questa la chiameremmo “reazione”, piuttosto.

E della scuola presente cosa ci rimane?

Un servizio, che deve fornire competenze agli utenti migliori: non per il gusto della competizione, per carità! Ma sono loro gli imprenditori del futuro, quelli che creeranno lavoro. A loro la scuola deve pensare, gli altri, i secondi, per piacere, a consegnare le pizze! E in fretta, che calcoliamo quanto ci metti!

Sia ben chiaro: la scuola di prima non ci è mai piaciuta e nessun* di noi ne sente la mancanza. Siamo anche consapevoli che davvero “indietro” non si torna e che la nostra lotta dovrà fare i conti col digitale.
Ma si tratta, appunto di una lotta. Zamponi su Jacobin fa notare che “senza […] un’offensiva delle lotte [la carta di Lisbona] ha avuto esiti più distopici che rivoluzionari..“ Bruciamo i computer e ci diamo al luddismo?.
Magari a volte non farebbe malissimo (visto che scriviamo a un anno dall’inizio della DAD la carogna sale), ma è più urgente tracciare percorsi di resistenza nel contesto in cui siamo costretti ad agire.
robot riotSe davvero esiste una “tecnologia della liberazione” tocca a noi esplorarla. Rintracciare gli elementi tossici nel discorso tecno-ottimista è un buon punto di partenza, ma non di più.
Idee chiarissime non ne abbiamo, ma la prossima volta mettiamo sul tavolo la nostra esperienza e i nostri dubbi.


Fine della seconda tappa.
La terza sarà l’ultima e sarà quella in cui ci metteremo in gioco. Con alcune proposte, alcuni errori e sicuramente tanta voglia di cambiare la scuola che conosciamo.