La riforma dei professionali – Il quinto episodio di “Sottobanco”!

sottobancoAncora un nuovo episodio del nostro podcast sottobanco! Stavolta affrontiamo in maniera critica l’ultima riforma dei professionali.
Anche questo episodio è tratto dal nostro incontro sulla scuola fatto con Cobas Scuola Bologna.

Dato che si tratta di una registrazione di un incontro dal vivo, troverete riferimenti agli altri interventi. Se volete riascoltarli li ritrovate qui.

Contro l’alternanza

ALTROCHÉ TRAGEDIA!

Dopo la morte di due studenti in stage si parla del ruolo delle attività lavorative dentro i percorsi di formazione scolastici. Meglio dire, piuttosto, che ne parla un pezzo di società, perché chi nella scuola ha progettato e sostenuto politicamente l’idea del lavoro (di questo lavoro, del lavoro reale dentro l’istruzione) minimizza e ne fa una questione di aziende virtuose o meno. Parlano di “tragedia” (che equivale ad appioppare al destino cinico e baro le responsabilità della morte di Lorenzo e Giuseppe) e ci attaccano: cattivi noi, che ricamiamo assiomi politici ottusi sulla morte di due ragazzi. Ma queste morti non sono fatalità, come non lo sono tutte le altre morti sul lavoro (quasi 4 al giorno in questo inizio ’22). La responsabilità di queste morti è in capo a una classe dirigente che negli ultimi trent’anni ha insistito per incuneare dentro la scuola una certa dimensione lavorativa, che corrisponde per lo più, nel caso dei corsi di formazione professionali o anche degli istituti tecnici e dei professionali, all’abitudine al lavoro subordinato. La scuola è misurata solo nella sua capacità di addestrare al lavoro.
Tale ossessione e permea tra l’altro anche il discorso pedagogico nella scuola: “Se arrivi in ritardo al lavoro mica ti puoi giustificare…”; “se ti comporti così in azienda vedrai…”; “se non studi non troverai mai lavoro…”. Purtroppo sono frasi che si sentono spesso tra le mura scolastiche, enunciate da insegnanti, che non hanno nulla per motivare gli studenti che non sia la minaccia di un futuro di miseria e disoccupazione. Che tristezza e che rabbia!
Tristezza e rabbia si amplificano di fronte alla morte di Lorenzo e Giuseppe, così come alle varie morti sul lavoro. Altroché tragedia!

ABOLIAMO L’ALTERNANZA

Cominciamo dunque dalle basi: chiediamo l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, poiché rappresenta una scuola che invece di esplorare criticamente la realtà la legittima e ne riproduce le violenze.
Ricordiamoci, inoltre, che l’alternanza (nelle sue varie forme) non è retribuita.
Non si lavora gratis poiché la prestazione non retribuita partecipa ad abbassare il valore del lavoro, e dunque a creare rapporti di forza che, una volta concluso il percorso di istruzione, mi imporranno salari da fame. Ciò equivale ad educare allo sfruttamento e a riprodurlo.
Non si lavora gratis perché il discorso sulla formazione va invertito: non è un favore che l’azienda fa agli studenti ma, al contrario, un modo di scaricare i costi della formazione delle aziende sulla collettività (mentre i benefici vanno ai privati) e sul tempo che gli studenti dovrebbero avere a disposizione per fare scuola.

Ora, è evidente che i legislatori che negli ultimi decenni hanno introdotto l’alternanza lo hanno fatto in coerenza con l’indirizzo politico che i documenti europei hanno segnato. L’idea di “mondo reale” che emerge è tutta schiacciata sul lavoro, e le competenze che esso deve stimolare sono quelle del docile lavoratore aziendalista: flessibilità, obbedienza, adempitività, resilienza.
Forte della difficoltà crescente di trovare un lavoro decente, il piano divulgativo delle riforme ha contribuito a legittimarne i contenuti: “la scuola deve mettere in relazione gli studenti con il mondo del lavoro”; “le scuole devono essere in relazione con il territorio” (dove “territorio” equivale sempre più spesso ad “aziende del territorio”): sono mantra incontestati.
Chi ha scritto le riforme ha, inoltre, un’idea fortemente classista della realtà: non si capirebbe altrimenti perché le ore di alternanza sono inversamente proporzionali alla composizione di classe che tendenzialmente frequenta i vari indirizzi di scuola superiore (al professionale le ore di alternanza sono 210, al tecnico 150, al liceo 90). Chi si deve formare di più al lavoro subordinato è certamente chi già è socialmente destinato al lavoro salariato. Da questo punto di vista si osserva bene il ruolo ideologico di riproduzione sociale che la scuola ha nel nostro mondo.

La scuola di massa, tuttavia, non è sempre stata ossessionata dal lavoro. Lo è da due/tre decenni, ossia da quando la controrivoluzione neoliberista ha rotto qualsiasi argine e le classi dirigenti hanno deciso che le conquiste della scuola per tutt* andassero radicalmente ridimensionate in ragione di interessi di crescita del profitto e della flessibilità economica. Appena nata, sull’onda delle mobilitazioni operaie e studentesche degli anni ’50/’60, la scuola di massa era un frutto acerbo e contraddittorio della lotta di classe: istruzione per tutt* significava che tutt* dovevano avere il diritto di accedere a ciò che in precedenza era ad esclusivo uso delle élites. Ma attenzione: il processo di democratizzazione dell’istruzione non è stato condotto fino in fondo, le istituzioni deputate alla trasmissione della cultura hanno continuato ad avere un’idea della cultura stessa fortemente elitista – seppur in un contesto di massa. Ciò è vero per l’università e lo è ancor di più per la scuola, incapace di trasformare i contenuti adeguandoli alle classi sociali che la frequentavano. Una delle conseguenze è sotto gli occhi di tutt*, tanto più evidente quanto più ci si confronta con strati sociali “bassi”: molt* student* non riescono a fare proprio il potenziale emancipativo della cultura, non riescono a soggettivarla, anzitutto a causa della loro estrazione sociale.

Secondo questa visione, la scuola astrae; la cultura è lontana dalla vita quotidiana; il sapere ha le mani pulite. E allora è chiaro che, nel mondo che conosciamo, la soluzione più semplice sia mandare al lavoro una fetta sempre più grande di student* e costruire un discorso ideologico per cui i saperi acquisiti a scuola non servono a nulla, poiché teorici, appartenenti ad una cultura alta e snob (si leggano le prime righe di ciò che pensa Renzi della scuola. L’opposizione che viene a crearsi è dunque: Scuola – mondo teorico, impacciato come un amico nerd e un po’ aristocratico / Lavoro – mondo pratico, scafato, esperienziale, l’amico che la sa lunga. Niente di più ideologico.

E tuttavia tale manicheismo ideologico porta alla luce qualcosa di vero, continuiamo a percepire come “alta” un’attività organizzativa e astratta e come “bassa” una tecnica o concreta. È una simile contrapposizione che determina la cinica richiesta delle famiglie e degli studenti (tanto più forte quanto più appartenenti alle classi più basse, tendenzialmente) di “formare al lavoro”. Cinica, ma realista: che fare una volta usciti da un percorso di istruzione “classico” se sono nato in un contesto che non mi ha fornito agganci a mestieri ben retribuiti, relazioni che permettano di realizzare la mia formazione “come persona” in serenità? Se parto da dietro, allora meglio compiere un percorso dai fini pragmatici, che mi permetta quantomeno di galleggiare dignitosamente nella lotta per la vita neoliberista. Di fronte a questa richiesta è possibile accampare ancora le ragioni illuministiche dell’uomo astratto, del cittadino attivo?
Non sappiamo se esista una via d’uscita da questa impasse. Tuttavia vale la pena di provarci, e forse il nodo è tornare a pensare la relazione tra sapere, scuola e “mondo reale”. Quel nodo che oggi brucia più che mai.

viteE se uno dei modi per uscirne fosse, paradossalmente, approfondire il rapporto tra la scuola e la materialità del mondo, ivi compresa l’attività umana che chiamiamo “lavoro”? Attenzione: non lavoro “subordinato”, non lavoro aziendale, frutto di una precisa organizzazione politica dei mezzi di produzione e delle forze che li controllano, bensì “lavoro” come attività necessaria (inevitabile?) alla vita materiale e culturale della società.
Una vite serve all’intera società, dal sottoproletariato all’aristocratica borghesia che di questi tempi si fa i giri nello spazio. A produrla, però, è solo una parte della società, mentre l’altra organizza il lavoro. Quanto sapere, quanta scuola in potenza c’è dietro ad una vite? Studiare le complesse trame che stanno dietro alla vita materiale della società, e dunque capire anche come si trasforma la materia, l’energia (e quali trame simboliche – politiche, linguistiche ecc…- si nascondono) significa riconoscere la dignità delle capacità umane nella loro interezza, senza dover distinguere tra persona astratta e persona produttiva, e soprattutto offre uno strumento politico per disarticolare l’opposizione tra scuola e mondo reale, o tra scuola e lavoro. Fornisce cioè un sapere di classe, perché riconosce quella parte della società che produce la vite, e non solo i valori aziendalisti di chi organizza la produzione. Consente altresì di spingere in avanti quel processo di democratizzazione del sapere novecentesco che ha subito negli anni ’90 una battuta d’arresto e che anzi è regredito, senza però opporre ai processi in corso un’obiezione astratta – e lontana dalla sensibilità di parte della popolazione studentesca – come “bisogna formarsi come persona”. In fondo è questa l’idea di egemonia gramsciana: un’antitesi che ingloba la tesi e che diventa sintesi a sua volta. E’ ciò che ha fatto il capitalismo fino ad ora con molte delle rivendicazioni politiche novecentesche. Sarebbe ora di invertire la rotta.

La “Tavola rotonda degli industriali” europei e le riforme della scuola – Online l’episodio 4 di “Sottobanco”!

…le audaci imprese

Eccoci online con il nuovo episodio di sottobanco! Andiamo indietro nel tempo ricostruendo l’impatto che il tavolo degli industriali europei ha avuto sulle riforme scolastiche e sulla loro natura imprenditoriale.
L’episodio è tratto dal nostro incontro sulla scuola fatto con Cobas Scuola Bologna, durante il quale abbiamo anche registrato la terza puntata.

Chi invece volesse riascoltare i vecchi episodi, può trovarli alla pagina di sottobanco.

Incontro: “La scuola che addestra”, 23 Novembre @Spm Ivan Illic

lascuolacheaddestraCom’è che la scuola è diventata un coacervo burocratico di “rendicontazioni”, “evidenze”, “certificazioni”, “progetti”, una palude di scartoffie per i lavoratori e una macchina ansiogena di misurazione continua delle competenze per gli studenti? Ad anni dall’ingresso della valutazione standardizzata dell’istituto INVALSI, con l’ulteriore innovazione della valutazione per competenze, quali sono gli effetti di questi cambiamenti?
E ancora, perché il mantra dei politici continua da anni ad affermare la necessità di legare il mondo della formazione a quello del lavoro, utilizzando questi dispositivi?

Il rapporto tra scuola e mondo del lavoro è da sempre un tema interessante per chi si occupa di educazione. Nel corso della storia ha determinato trasformazioni che hanno plasmato i linguaggi, le funzioni, le forme della legittimazione ideologica della scuola, ne hanno cambiato il volto e il ruolo sociale.
Da ormai circa un trentennio si assiste ad una forte trasformazione in senso neoliberale della scuola: ciò che conta, nel discorso egemone, è che essa formi forza-lavoro efficiente, performativa, spendibile per la crescita economica nel contesto di un’economia capitalistica cognitiva e ad altissima concorrenza. Non si tratta di un discorso politicamente neutro: molte delle parole d’ordine che utilizziamo correntemente a scuola, in ambito didattico-pedagogico, sono scritte nero su bianco su diversi documenti delle associazioni degli industriali e poi mediate politicamente dalla “strategia di Lisbona” dell’Unione Europea e quindi dalle norme che regolamentano la scuola.

l risultato è non solo quel gergo aziendalistico e oggettivante di cui sopra, ma anche un’istituzione scolastica che ha assunto le forme di un’idra a più teste.
L’antica funzione (nazionalistica) di “formazione dei cittadini della repubblica” convive – spesso in maniera contraddittoria – con confuse forme di didattica “innovativa”, che nascondono obiettivi di addestramento al lavoro dietro a un vocabolario pedagogico infarcito di lessico democratico.

Di come si è arrivati fino a qui ne parliamo con:
Silvia Di Fresco e Matteo Vescovi (autori dell’articolo“L’arrestabile ascesa della scuola delle competenze” , da cui partono diverse nostre riflessioni.)
Luca Castrignanò (Cobas Scuola)

Sottobanco – inizia la nostra serie di podcast!

sottobanco
In questi tempi difficili abbiamo pensato fossero utili alcuni strumenti per l’isegnamento e alcuni spunti teorici su cui riflettere.
Ciò che segue è una serie di podcast prodotti dalla ReteBessa e chiamati Sottobanco. Sopra il banco è dove stanno tutti gli strumenti ufficiali, burocratici, adempitivi; sotto il banco, il caos della vita scolastica e non, la stizza per la scuola, i desideri di tutti e tutte, le critiche, i dubbi e gli interrogativi. Sotto il banco troviamo anche le gomme da masticare, appiccicate tra il piano e il telaio con dispetto più o meno consapevole, contro la noia o per chissà quale ragione.
La serie dei podcast vorrebbe essere un po’ come queste gomme: ogni puntata della serie è una gomma da masticare incollata sotto il banco della scuola conformista e aziendalista. Incontrerete materiale disparato, che riguarda didattica, istituzioni scolastiche, politica, prospettive differenti su scuola e dintorni. Ha l’ambizione di rivolgersi a tutta la comunità scolastica.
In fondo trovate il link al primo episodio, “Idee per un’altra valutazione”: parliamo di didattica e valutazione con Cristiano Corsini.
Buon ascolto!

Che fine hanno fatto i secondi? – Viaggio per il mondo alla ricerca di un tempo senza ansia valutativa – Ep. 2

bruce_willisQuesta è la seconda tappa del nostro viaggio. Il primo episodio lo trovate qui.
Oggi si va a Parigi, a Roma, a Bruxelles e a Palermo, dove sentiremo gente che si esprime con accento fiorentino. Mentre pubblichiamo, contribuiamo a costruire lo sciopero indetto dai COBAS scuola, dai CNPS del 26 Marzo, cui Priorità Alla Scuola sta dando ampio sostegno. Tra i temi dello sciopero anche il modo in cui si prevede di investire il Recovery Fund. Attualmente il disegno del Governo è quello di dare seguito alla logica che critichiamo in questi post.

Quindi…ci vediamo in piazza.

A Bologna l’appuntamento è per le 10 in Piazza del Nettuno.

EPISODIO 2 – Un ERASMUS a Parigi

Dalla California ci spostiamo a Parigi, anni Settanta. Echi del ’68, degli studenti in piazza. In Italia le piazze sono ancora caldissime. C’è uno scontro che è politico, generazionale, ideologico, artistico, di genere. Finirà nel ’78, no! nell’80! no nell’82 con Pertini che applaude a Zoff, campioni del mondo, “po po po poppo po po”. Si fa in tempo a sperimentare il tempo pieno, istituire il divorzio e l’aborto. La tecnologia ormai ha sostituito molti lavoratori e lavoratrici in molte fabbriche. Si libera un sacco di tempo, cosa avviene in quel nuovo tempo è argomento non da poco.
Uno noto studioso si mette a studiare le tesi di un cumulo di ordoliberali tedeschi degli anni ’50 e avvisa: «hanno vinto loro! Occhio che è la nostra vita a essere sottoposta a sfruttamento»
– Dici che lavoreremo di più?
– Parbleu! Dico che sta svanendo la differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro.
– In parole povere?
In Nascita della biopolitica, Foucault dice che il mondo sta cambiando e che la nostra intera vita, le nostre scelte, i nostri movimenti producono valore, soldi che circolano, ma solo nelle tasche di pochi: nessuno ci paga per questo.

Poco più di trent’anni dopo, un movimento studentesco chiamato Onda prende questa idea e la porta nelle piazze. Ci dovete dare il reddito che sia garantito/universale e poche storie: ci state sfruttando e non lo state dicendo. Già da anni, d’altronde, la finanza fa fruttare le scelte di tutti noi causando nuove forme di sfruttamento che ancora fatichiamo a vedere con chiarezza. Movimenti come Non Una Di Meno e le reti LGBTQI+ ripropongono questa visione e la portano nelle piazze e nei loro slogan. Ma a parte queste eccezioni, è un grande mistero dove sia finita, nell’ultimo anno, la parte dell’Onda che è entrata nelle scuole: anni a parlare di capitalismo cognitivo e poi, quando lo schemino imparato e ripetuto nelle assemblee esplode, questi argomenti non ritornano e trovano pochissima eco.

La vita su (neoliber)istagram

Nel passaggio dall’Onda al chiringuito si afferma definitivamente un altro problema. La crescita esponenziale di Internet ha fornito un nuovo strumento di cattura. I nostri tablet, pc, smartphone, orologi (pardon: DPI) forniscono tonnellate di dati che vengono accumulati e studiati. La stessa pandemia è un’occasione clamorosa per le grandi corporazioni: lo studio di quello che stiamo facendo tutti i giorni finisce immagazzinato, catalogato e analizzato, i nostri click fruttano soldi, i nostri dati sono venduti.
Non c’è legge sulla privacy che ci possa difendere: siamo nel flusso, qualunque cosa facciamo. Non abbiamo saperi e pratiche tanto condivise da poterci difendere. E qualcuno gioca più sporco di altri.

Sono anni che l’account Google è reso obbligatorio per docenti e student*. Generazioni di adolescenti vengono educate all’idea che “Google” sia sinonimo di “mail”, “motore di ricerca”, “browser”. E la chiamiamo scuola “pubblica”.
Il tentativo di mantenere le relazioni con la scuola, specialmente a marzo 2020, è passato tramite chat di Whatsapp, gli studenti adorano Instagram, i matusa come noi hanno ancora Facebook. E Zuckerberg gode e guadagna. Nelle nostre buste-paga, i soldi che ci deve non ci sono. Eppure la nostra vita frutta denaro 24 ore su 24.
A dir la verità Foucault spiegava una cosa più complicata, che paradossalmente include questa opzione. Ma come quando si gioca a poker e si mettono sul tavolo 3 assi, prima di calare il quarto per non svelare la tattica, ci viene di chiedere: “Basta?”.

Non si esce vivi dagli anni Ottanta…

Reagan e Thatcher danzano insieme al ballo infernale e i diavoli applaudono. I loro movimenti librano nel mondo gemme di terrore e odore di zolfo che arrivano fino a Parigi. L’Europa sta accelerando la sua costruzione, tocca ripensare le basi e quindi la scuola. Dopo anni di gestazione lo European Round Table of Industrialist (ERT) pubblica un documento che riguarda la scuola in cui si identifica l’istruzione come un nodo strategico. Bene. Quindi bisogna investirci. Bene. Tuttavia, «l’industria ha soltanto una modestissima influenza sui programmi didattici». Come? Sì, sì, perdonateci, ma la scuola dimostra «un’insufficiente comprensione della realtà economica, degli affari e della nozione di profitto». Sì, ma. Zitti, vanno attivate delle contromisure. Tipo? Il teleapprendimento, il teleinsegnamento e la sperimentazione dei software didattici.

Un attimo: pensiamoci. Abbiamo appena conquistato il tempo pieno, fateli rifiatare questi bambini. Sì, sì, noi ci prepariamo. Nel 1990 la Commissione Europea ci dice:

«L’insegnamento a distanza è particolarmente utile per assicurare un insegnamento e una formazione redditizi»

Com’è andata? Facciamo un salto in avanti. Andiamo a Bergamo, a fine Novembre 2019. Agli Stati Generali della Scuola digitale, Stefano Ghidini (all’epoca di Edugroup) ci dice serenamente:

«Sette-Otto anni fa […] vi abbiamo erroneamente riempito di tecnologie senza ascoltare ciò che le scuole veramente avevano bisogno di implementare. C’è stata una fase successiva, probabilmente un altro errore: i fornitori hanno cercato di fare da formatori all’interno delle scuole. Il Ministero e le scuole ci chiedevano la formazione (che si avvicinava troppo spesso alla formazione didattica), per cui entravamo in sovrapposizione con un ruolo che [voi docenti] sicuramente sapevate fare meglio di noi»

L’anno dopo è Ghedini stesso a dire che con la Dad, dall’inizio del Covid si è aperta una clamorosa differenza tra scuole Serie A e di Serie B.
È andata bene, no?

… ma se sopravvivi ci pensano i venti a finirti

Quindi ora? La scuola ha migliorato la propria “comprensione della realtà economica, degli affari e della nozione di profitto”?
– “Che vuoi fare dopo scuola?”
– “Lo startupper, prof!”
In un contesto che ha conosciuto la crisi aperta nel 2008, la gestione della crisi a botte di troika, una pandemia che ormai dura da più di un anno nonché il fallimento di un numero sterminato di piccole aziende e un esercito di precar*, questa è la visione cui ci si appiglia per immaginare la scuola del futuro.
L’idea che, grazie alle tecnologie, un* student* possa ricavarsi da solo il proprio percorso di apprendimento individualizzato pone fortemente l’accento sull’originalità del prodotto, sulla creatività: una buona idea (e voglia di lavorare, s’intende) basta a lanciarci sul mercato globale.

La prospettiva della start-up risulta estremamente attraente per un* student* anche per quel mix tra freak e uomo d’impresa che caratterizzerebbe il membro della “classe virtuale” della bay area. Autonomia nel lavoro, alto valore aggiunto a fronte di un basso investimento iniziale (il mito di Google nel garage), e sopratutto: un lavoro divertente in un posto circondato da gente sorridente e simpatica (scivoli nella sede svizzera di Google, altalene nella start-up siciliana amata anche da Renzi: un colosso la prima, un capannone vuoto, da qualche anno, la seconda).
Perché il tasso di fallimento delle start-up è in effetti elevatissimo: e il sistema ne necessita di molte per poter prosperare.

startup

Bill Gates rileva la start-up di Homer

Da qui la necessità, come ci fa notare Consoli qui, di diffondere “una pedagogia dell’intraprendenza e dell’innovazione”: solo che non si tratta semplicemente di introdurre l’imprenditorialità a scuola, ma di spingere gli/le student* a pensare – a pensarsi – come piccole imprese, a “strutturare la propria soggettività in tal senso”.
– E se falliamo?
– SSSST! Silenzio!

Si direbbe che come comprensione della nozione di profitto non c’è male.

E quanto ad “influenza dell’industria sui programmi didattici”, come stiamo messi?
Una risposta è nel rapporto “Restart, italia!”, citato a anche da Consoli, rapporto in cui si invita ad “intervenire[…]in maniera puntuale sui ragazzi, direttamente nei luoghi della formazione – scuola e università”.

System restart in 10, 9, 8…

E con “Restart, italia!” ancora un altro salto nel tempo: alla penultima imminente apocalisse, al penultimo governo tecnico, al penultimo Supermario. E a Corrado Passera che ha commissionato la stesura del report.
Il documento non è l’unico né il più recente saggio di questo genere letterario pulp, ma spicca per un brano che vale la pena di citare per intero:

si potrebbe pensare a un nuovo modello di tesi di laurea. Gli studenti potrebbero scegliere di chiudere il loro ciclo di studi universitari da startupper: al posto di una discussione di tesi farebbero quello che in gergo si chiama elevator pitch, ossia il tentativo di convincere il proprio capo “in ascensore” – per la durata che prende la salita o la discesa – sulla bontà e potenzialità della propria idea.


Sembrava di poter passare la vita in spiaggia a bere piña colada: una mano che scrive codice, l’altra che regge la noce di cocco. E invece. Una mano trema, l’altra allarga il nodo alla cravatta, prendi fiato, inizi a parl – ding! – siamo al piano: “non ho tempo, torna in ufficio!”.
Il percorso scolastico finisce in ascensore: pochi piani, poco tempo. Davvero troppo poco tempo.
Vorremmo tanto riavviare il sistema, sul PC funziona. Ma la scuola, anche quella digitale, non è un PC.

Noi, qui, ora

Macerie d’imprese e nessun futuro smagliante: cosa ci resta della scuola digitale, la scuola del futuro?

La rivoluzione educativa non è avvenuta: ormai è ampiamente documentato che la semplice iniezione di dispositivi nel sistema scolastico ha avuto risultati nulli a livello di apprendimento. Laddove vi sono stati dei miglioramenti, sono lievi e comunque non è possibile distinguere se derivino dall’uso della tecnologia in quanto tale o dal cambio di metodologia didattica. E questo non sorprende: gli investimenti sul digitale a scuola non sono stati fatti su solide basi documentali (evidence-based), ma sull’onda dell’entusiamo tecno-ottimista (value-based), entusiasmo che si accompagnava anche alla retorica emergenziale presente, ad esempio, nel report Bangemann: se non facciamo presto l’Europa perderà il treno della rivoluzione digitale.
Nessuna rivoluzione quindi: semmai, l’introduzione delle tecnologie digitali ha inasprito divario tra chi aveva le competenze per poter trarre vantaggio da queste tecnologia e chi ne era privo. Questa la chiameremmo “reazione”, piuttosto.

E della scuola presente cosa ci rimane?

Un servizio, che deve fornire competenze agli utenti migliori: non per il gusto della competizione, per carità! Ma sono loro gli imprenditori del futuro, quelli che creeranno lavoro. A loro la scuola deve pensare, gli altri, i secondi, per piacere, a consegnare le pizze! E in fretta, che calcoliamo quanto ci metti!

Sia ben chiaro: la scuola di prima non ci è mai piaciuta e nessun* di noi ne sente la mancanza. Siamo anche consapevoli che davvero “indietro” non si torna e che la nostra lotta dovrà fare i conti col digitale.
Ma si tratta, appunto di una lotta. Zamponi su Jacobin fa notare che “senza […] un’offensiva delle lotte [la carta di Lisbona] ha avuto esiti più distopici che rivoluzionari..“ Bruciamo i computer e ci diamo al luddismo?.
Magari a volte non farebbe malissimo (visto che scriviamo a un anno dall’inizio della DAD la carogna sale), ma è più urgente tracciare percorsi di resistenza nel contesto in cui siamo costretti ad agire.
robot riotSe davvero esiste una “tecnologia della liberazione” tocca a noi esplorarla. Rintracciare gli elementi tossici nel discorso tecno-ottimista è un buon punto di partenza, ma non di più.
Idee chiarissime non ne abbiamo, ma la prossima volta mettiamo sul tavolo la nostra esperienza e i nostri dubbi.


Fine della seconda tappa.
La terza sarà l’ultima e sarà quella in cui ci metteremo in gioco. Con alcune proposte, alcuni errori e sicuramente tanta voglia di cambiare la scuola che conosciamo.

Chi ha paura del pensiero critico? – Rete Bessa solidale con la collega sotto attacco

Il fatto è noto: durante la dad un’insegnante accoglie lo spunto di una classe e stimola una discussione critica su un pezzo di Bello Figo. Un genitore che stava ascoltando la lezione ad insaputa della prof. e –  cosa ancor più grave – delle/degli alunn*, non gradisce e scatena un putiferio (una volta resa nota la lezione abbiamo visto, ad oggi, il coinvolgimento dell’ufficio scolastico regionale, diversi articoli di giornale e persino un’interpellanza parlamentare!).
Cosa ha fatto la collega? Il suo mestiere! E nel modo migliore possibile. Seguendo la propria pluriennale esperienza ha fatto peraltro quello che c’è scritto in tutti i libri di pedagogia: ha accolto uno stimolo da parte della classe e l’ha usato per costruire una discussione, invece di fare diventare l’argomento un tabù.

La Rete Bessa esprime la propria solidarietà alla collega sotto attacco.

Sappiamo quanto sia difficile insegnare in una scuola che ci chiede sempre più di sfornare competenze, a danno del pensiero critico. Sappiamo quanto sia avvilente fornire un insegnamento di qualità nonostante la DAD. Avevamo già denunciato i rischi di una didattica tra le mura domestiche, rischi per i/le insegnanti, ma anche per gli/le alunn*, privati di uno spazio in cui esprimersi liberamente.

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Un genitore apprensivo controlla la qualità della didattica

L’occhio della famiglia, in DAD, è più vigile che mai. Specialmente quello delle famiglie affezionate ad un’educazione rigida e ai sani vecchi costumi di una volta.

Adesso l’incubo si è fatto realtà e a farne le spese è una nostra collega.

Per questo siamo accanto a chi, nonostante tutto, si ostina a fare bene il proprio mestiere e a causa di questo viene attaccata da chi, invece, ci vorrebbe ubbidienti rotelle di un meccanismo oppressivo.

Difendendo la nostra collega difendiamo la libertà di insegnamento, perché, in fondo, è ciò che stanno attaccando le destre che sono dietro questa oscena vicenda. La risonanza che questi fatti hanno avuto non è casuale: non pensiamo che sia il contenuto ad aver dato fastidio, ma il metodo – ché l’esercizio del pensiero critico è cosa evidentemente sgradita.

Se tacessimo di fronte a questo episodio, non potremmo dire di difendere una scuola pubblica e plurale. Per questo, nel continuare la nostra azione di resistenza dentro la scuola, sostienamo e sosterremo la collega sotto attacco.

Che fine hanno fatto i secondi? – Viaggio per il mondo alla ricerca di un tempo senza ansia valutativa


Il mondo sta cambiando e la scuola con esso. Ma non è tutto nuovo quello che stiamo vedendo. Nelle nuove parole d’ordine e nei mezzi che utilizziamo si nascondono vecchie idee ora pronte ad esplodere. L’idea di ranking, il fideismo tecnologico, l’ansia valutativa. Occorre farsi un bel viaggetto per capire cosa succede e come reagire. Mettetevi comodi: è un viaggio in tre tappe. Oggi pubblichiamo la prima puntata (la seconda si trova qui).

 

EPISODIO 1 – La DAD in California

Integrati! Anzi no: apocalittici! Anzi no integrati!

La ministra Azzolina a maggio 2020 dichiarava che la dad era stata un grande successo. La stessa ha poi affermato (gennaio 2021) che la dad non funzionava più.
Poco da preoccuparsi, dal momento che oggi abbiamo un Ministro nuovo di zecca… Solo che Patrizio Bianchi è stato in realtà molto vicino alla ex-Ministra. Lo abbiamo visto in azione il 9 Giugno, mentre presentava le sue proposte per la scuola post-lockdown in qualità di Coordinatore del Comitato esperti che ha affiancato Azzolina (l’audizione è ancora visibile qui). Di quell’audizione suggeriamo l’analisi pubblicata da ROARS. Sebbene recentemente Bianchi abbia – anche lui- sollevato dubbi sulla DAD, è facile capire come l’impianto del suo discorso sia molto legato al digitale, e più in generale al privato.

Agli Stati Generali della Scuola Digitale (SGSD) si osservava che, mentre all’indomani del lockdown c’è stato un grande impegno da parte dei/delle prof. nella dad, in un secondo momento questa è apparsa come il più grande dei problemi della scuola.

Tutto questo spettro di posizioni sembra rispecchiare la nota dicotomia di Umberto Eco tra apocalittici e integrati. È come se che tutto il mondo della scuola sia passato dal primo polo – una posizione di entusiasmo eccessivo nei confronti della dad – al secondo, vedendo quindi in essa tutto il male del mondo. E noi dove ci collochiamo?

“Scusi, lei insegna?”

Ci fossero anche dei/delle docenti a discutere di questo tema, forse il discorso sarebbe differente. Nessun* si fa sfiorare dal sospetto che il rigetto della didattica a distanza possa venire dalle “sensate esperienze” degli insegnanti (come fa notare De Michele in un suo articolo), mentre sembrerebbe più saggio fermarsi a metà tra i due poli, e non essere poi cosi pessimisti, anche perché, comunque, come ci fanno notare dagli SGSD, “dobbiamo fare i conti con l’ambiente digitale”.

Certo, che qualche problema la DAD lo abbia avuto lo ammettono anche le relatrici degli SGSD, ma, secondo loro, laddove la dad non ha funzionato è perché non eravamo preparat*. Tant’è vero che ci siamo dovuti inventare dei nomi nuovi per cose che esistevano già: DAD per e-learning, DDI per blended learning. Anche i registri si sono aggiornati: alle assenze e ai ritardi si sommavano le assenze parziali di quegli studenti che si addormentavano alla prima ora e alla seconda smettevano di rispondere all’appello. Senza contare i vari PIA e PAI, inventati all’occasione del lockdown. Tutta roba da recuperare in un POI mai ben definito.

“Andrà tutto bene”

È il delirio, si sa. Ma non per questo dobbiamo scoraggiarci e temere l’apocalisse informatica: la virtù sta nel mezzo e noi, virtuosi, cerchiamo la virtù del virtuale. In fondo il ragionamento è chiaro: se la dad non ha funzionato è perché la scuola non era adatta al digitale. Basta cambiare la scuola, cambiare la didattica, cercare una pedagogia adatta e “andrà tutto bene”. Gambe in spalla, allora. Cambiamo pedagogia, cerchiamone una nuova.

Ma cambiare pedagogia significa cambiare l’idea di società ad essa sottesa. Siamo pure dispost* a cambiare tutto, ma prima di farlo in nome del digitale – di questa specifica forma di digitale che ci viene richiesta- chiediamoci che idea di società ci sarà mai a monte di una pedagogia adatta alla DAD, alla DDI, alla blended o a quello che ci viene suggerito nelle circolari. Chiediamoci dove ci portano queste idee. Pare ci portino in California.

Le retoriche sul digitale e l’ideologia californiana

Più che una novità totale, la DAD sembra finalmente l’occasione che la scuola italiana aspetta da anni. La strategia di Lisbona 2000 aveva come obiettivo quello di fare dell’Europa la società della conoscenza. Pena: perdere il primato nella competizione globale. Cosa che peraltro è avvenuta.
Chiaramente la scuola ha un ruolo determinante in questo processo e in una società dove la conoscenza è sempre più fluida, diffusa, e dove ognuno può costruirsi il proprio percorso cognitivo individuale, la tecnologia è la chiave per il successo. Poco importa che le piattaforme di adesso siano progettate per non farci uscire dal loro ristretto ambito allo scopo di estrarre valore dalle nostre azioni. È ciò che Massimo Airoldi ha definito “cultura algoritmica”:

«quando quattro miliardi di stimoli automatizzati, derivanti dall’incessante elaborazione computazionale delle nostre tracce digitali, deformano le lenti attraverso cui vediamo e immaginiamo la realtà che ci circonda» (“L’output non calcolabile”, in AA. VV. Datacrazia, 2018).

Non è questo l’esatto contrario di quello che dovrebbe essere un percorso di ricerca e costruzione della conoscenza?

Sotto i colpi della pandemia finalmente crollano le resistenze del corpo docente a questo cambiamento epocale: il digitale entra a scuola, indietro non si torna: finalmente sono spalancate le porte del progresso (ops! non progresso: innovazione!).
Certo, sono porte fatte di materiali estratti in Congo grazie al lavoro minorile, ma che importa? Mica ci si arriva in Erasmus!

Raccolta manuale del cobalto ad opera di ragazzini (fonte: The Guardian)

Della materialità di tutto ciò se ne perde traccia. Anzi, il discorso diventa tenace e suggestivo, come si vede chiaramente dagli interventi degli SGSD (ci vuole stomaco però e non dite che non vi avevamo avvertit*).

Certo, a 20 anni da Lisbona è possibile o addirittura probabile che un laureato faccia il rider e non il “creativo” (qualunque cosa questa parola voglia dire), mentre gli psicologi sono al lavoro per capire che danni abbia fatto la dad agli/alle student*.

Vale davvero la pena di andare a fondo nella decostruzione del discorso egemone sul digitale, cosa efficacemente fatta in diversi testi e riassunta molto bene nel libro di Gui “Il digitale a scuola”. Ci limitiamo ad evidenziare alcune connessioni, che già Gui ha rilevato, tra la retorica ormai trentennale sul digitale (che si è trasferita in modo evidente al discorso sulla dad) e l’ideologia neoliberista.

Lo stesso Gui, infatti, riprende Barbrook e Cameron per definire come l’ideologia californiana sia entrata in Europa. Secondo questi due studiosi (qui un loro articolo tradotto in italiano), l’ideologia californiana è “un mix di cybercultura, liberismo economico e controcultura libertaria”, e “combina lo spirito libertario degli hippies con lo zelo imprenditoriale degli yuppies”. In un ottica di determinismo tecnologico, in cui la semplice immissione di tecnologie dispiega automaticamente un potenziale di liberazione, questa ideologia illustra in maniera estremamente semplice e suggestiva un complesso di cambiamenti che sarebbero altrimenti difficili da leggere in una cornice unitaria.
Sempre secondo Barbrook e Cameron, questa tendenza non ha perso tempo a penetrare anche il discorso politico europeo ed è possibile trovarne tracce esplicite nel Bangemann report del Consiglio Europeo del 1994 (è sulla base di documenti del genere che molti finanziamenti europei sono stati orientati nella direzione dell’investimento tecnologico).

Codin’ in USA

Come tutte le rivoluzioni tecnologiche poi, il portato visionario ha investito anche il mondo dell’educazione al punto che la tecnologia non è parsa più solo un supporto, qualcosa in grado di migliorare il processo di apprendimento, ma addirittura libererebbe un potenziale creativo finora inimmaginabile.

La mascotte di scratch, noto linugaggio di programmazione didattico

Chi lavora nella scuola primaria conosce bene l’entusiasmo e l’aura che circonda il mondo del coding, termine-ombrello per contenere tutto ciò che ha a che fare con l’informatica, anche se in realtà si dovrebbe riferire solo alla codifica di algoritmi. Non è difficile rintracciare elementi ideologici di questa natura nella pedagogia ad esso legata e sviluppata, ad esempio, da Resnick e ancora prima in quella di Papert.

Proprio sul coding vale la pena di soffermarsi: è interessante infatti sottolineare che i presupposti didattici su cui l’insegnamento della programmazione ai bambini si basa sono ampiamente condivisibili. Ciò che colpisce è l’atteggiamento spesso militante di chi si impegna in questo contesto: sembra che tutt* debbano imparare a programmare a prescindere e questo genera un proliferare di attività di divulgazione in merito (ma anche investimenti di magnanimi inquinatori) che non ha eguali per altre metodologie didattiche altrettanto valide. Per esempio: suonare è istruttivo quanto il coding, ma Carl Orff non è mai andato in giro a raccontare di come avesse convinto sua mamma ad imparare la marimba.
E’ qui che l’elemento ideologico sembra emergere con forza: qualunque cosa legata alla tecnologia assume il carattere di una missione capitale e non più rimandabile.

Giochi di parole

Il linguaggio in questo contesto è fondamentale: parole come hackathon, coding, edutainment ormai pervadono anche le indicazioni ministeriali (lo segnala, ad esempio, Boarelli nel suo libro “Contro l’ideologia del merito“).
E d’altronde, non è sulla base di scelte lessicali che agli SGSD è stata decretata la scarsa preparazione della scuola italiana?
Attenzione! Non è snobismo linguistico, anglofobia: è il significato e le pratiche connesse che ci importano. Non è un caso che tutte queste parole rimandino alla sfera ludica. Nel marketing aziendale si chiama gamification: rendere tutto simile a un gioco in modo da tenere l’utente “engaged”.

E a scuola? Se è documentato che la capacità attentiva si riduce fortemente davanti ad uno schermo, siamo noi docenti che dobbiamo rendere le lezioni più accattivanti, più simili a webinar, magari con infografiche e animazioni. Non educatori ma influencer: questo è e-learning, mica dad, sfigat*!
Non ci sentiamo sporch* a osservare chi riesce a svolgere lezioni su Tik Tok, ciò che ci preoccupa è semmai lo stile di sapere in pillole, parcellizzato e rigorosamente friendly che viene veicolato.
Richieste di sforzarsi a questi modelli arrivano adesso anche dai dirigenti, ma fin da subito ci sono stati collegh* solerti che hanno fatto di youtube la loro aula.

Questo sfumare del confine tra lavoro (o studio in questo caso) e gioco o tempo libero è tipico dell’ideologia californiana. Barbrook e Cameron:

“the cultural divide between the hippie and the ‘organisation man’ has now become rather fuzzy.”

 

Fine del primo episodio. Ora con calma: se diciamo gastronerie non offendetevi, siamo solo insegnanti e di errori ne facciamo parecchi. Le cose basta dirle: scriveteci! La prossima volta vi portiamo a Parigi negli anni Settanta, saremo in Italia surfando negli ultimi 4 decenni e poi ci allacceremo alle menti che la scuola italiana intende produrre.

Confronto alla pari professor*-student*, riflettiamo sulla scuola

Sarà per questo che non si può deviare dal programma?


Pubblichiamo un dialogo-intervista che abbiamo avuto con tre student* del Liceo Fermi di Bologna. Ci siamo conosciut* per la prima volta a Ottobre durante nella piazza dei Fridays For Future, dove anche noi abbiamo preso parola.
Con il ritorno della Didattica A Distanza ci siamo vist* di nuovo e abbiamo fatto qualche chiacchiera. Noi avevamo in testa un percorso lasciato in sospeso da Febbraio scorso, fatto di laboratori da condurre insieme a student*, loro avevano voglia di un confronto sulla scuola e sulla loro situazione. Ne è uscito, per il momento, un articolo pubblicato su Periscopio, il giornale del Liceo Fermi. L’articolo è firmato da Clara Mascellani e riporta le diverse voci di quei dialoghi. Lo pubblichiamo volentieri, in attesa di una nuova occasione di confronto.

Tre studenti di quinta del nostro liceo si sono incontrati per dialogare con insegnanti facenti parte di Rete Bessa.
Ma prima conosciamoli…

STUDENTI: cos’è e come è nata rete Bessa?

PROFESSORI: È nata durante l’occupazione della caserma Sani, l’anno scorso è stato sgomberato XM24, a fine novembre fu occupato; in quell’occupazione iniziammo a mettere in contatto realtà diverse, creando un punto d’appoggio e d’incontro tra professori, in cui poter lavorare circa il nostro modo di fare didattica; e riflettere sulla scuola attuale e su ciò che non funziona

STUDENTI: Cosa non vi soddisfa?

PROFESSORI: Si dice in gergo che la scuola è il luogo di riproduzione sociale; apparentemente mette tutti sullo stesso piano, invece sono molto visibili i disequilibri sociali,perpetuando i privilegi dei più fortunati. Non ci piacciono gli etichettamenti verso chi ha una qualunque difficoltà di apprendimento, secondo noi è possibile partire tutti dallo stesso livello, lavorando un pochino. Inoltre la scuola statale è troppo basata su un organizzazione dall’alto: c’è troppa poca democrazia partecipata e diretta, da chi effettivamente sta a scuola, da chi la fa; durante il lockdown è emerso molto: le decisioni vengono prese sempre da altri. Potremmo parlare ancora a lungo…
Ah e non ci piacciono i voti, a voi i voti piacciono?

STUDENTI: Il concetto di voto nella scuola è giudicare il tuo sapere, ma spesso sembra un giudizio sulla persona,uno che non va bene a scuola si sentirà sempre dire e penserà di essere un buono a nulla. Inoltre non si studia in base ai propri interessi ma in base al prof severo, perché i voti hanno conseguenze.

PROFESSORI: Il problema è quando l’intera vita dello studente, dallo studio, all’apprendimento e alla partecipazione in classe, è finalizzata al voto, tutto è guidato da un fine estraneo all’oggetto stesso del lavoro, ci si abitua fino a sei anni che ogni cosa che fai deve avere un profitto materiale, questo sottrae senso alle nostre azioni: il punto non è imparare storia, il punto è: mi serve un otto, quell’ attività è privata di senso. L’altro giorno riflettevo sull’etimologia della parola scuola: dal greco skholé, ovvero “tempo libero”, la scuola è il tempo libero, che non è occupato dagli affari e dagli impegni; il tempo che dedichi ad un accrescimento personale; studiare, per il cittadino greco,era il tempo migliore che si potesse dedicare a se stessi. La logica dell’affare, dell’investimento, del guadagno, nella cultura classica era opposta a quella dello studio; ora a scuola troviamo parole di lessico economico, come profitto scolastico,crediti, debiti, e non è un caso, perché alla fine degli anni cinquanta, degli economisti hanno cominciato a valutare il rendimento scolastico come un investimento del capitale; il capitale umano, i semi di conoscenza di ognuno, per poi fruttare questo capitale. Noi siamo dentro a questa logica, io vado a scuola per vendere la mia competenza.

STUDENTI: Oggi non lo considererei tempo libero, credo di aver perso molto estro creativo al liceo; mi dispiace che ci sia questo disinteresse generale nell’andare oltre al voto: uno è felice se ha preso un bel giudizio, anche se per farlo non ha appreso niente, basta il bel voto.

PROFESSORI. Questo è dettato da una forma di resistenza, perché o fate così o il voto ha comunque conseguenze nella vostra vita; siete giustificati. Alle superiori ti viene dato uno schemino che devi sapere; uscire da quello è molto difficile, noi abbiamo fatto il liceo, però non abbiamo imparato a dire queste cose dentro il liceo, ma con le esperienze. Io vorrei dire che una scuola senza voto non è utopistica, esistono realtà, che si chiamano scuole libertarie, ma ciò che sembra irrealizzabile è farlo nella scuola italiana, sarebbe bello richiedere degli spazi di sperimentazione dentro alla nostra scuola statale.

STUDENTE. Per esempio, momenti di accrescimento personale, per me lo sono state le assemblee: raro momento di dibattiti e confronti su argomenti di attualità.

PROFESSORE. Allora io mi chiedo, perché non riuscire a portare questi momenti anche nella didattica di tutti i giorni? Se l’assemblea funziona come momento educativo, perché non fare una richiesta da parte di tanti studenti, che a gran voce chiedono di fare una lezione partecipata e di confronto? Per riflettere circa il periodo in cui vivete.

STUDENTE. raramente succede,ma sembra che la scuola sia strutturata in modo che gli studenti abbiano poca voce in capitolo, anche solo guardando da chi è composto il consiglio d’istituto: noi siamo in 4 a rappresentare 1600 alunni, poi ci sono 4 genitori e 8 professori.

PROFESSORI. Siamo d’accordo sul fatto che avete poca voce in capitolo; da parte nostra , sganciarsi dalla linea ministeriale del programma, è complicato, ma non impossibile. Noi dovremmo ragionare maggiormente sulle vostre esigenze;la simmetria di questo rapporto non deve essere di potere, ma una simmetria di esperienza, di conoscenze e di pratica. Per fare il professore devi insegnare qualcosa che ti appassiona moltissimo, la scuola dovrebbe ruotare attorno ad un concetto di entusiasmo: essere appassionato da un lato e lasciarsi appassionare dall’altro, condividere entusiasmo in modo bilaterale.

STUDENTE: forse la scuola è così perché la società è così, ci insegnano che l’ignoranza rende schiavi e il sapere liberi, che studiando il mondo impari a ragionare, però …

PROFESSORE. Però Tutto diventa finalizzato a qualcosa, studi per un tornaconto personale: è diventata una scuola utilitaristica, possiamo dire di volere una scuola in-utile?

Assemblea della Rete NazioAnale TFQ – Tavolo scuola


Come Rete Bessa siamo stat* all’assemblea della rete NazioAnale TFQ, partecipando al tavolo scuola. L’incontro è stato entusiasmante e pieno di stimoli che ancora una volta ci spingono ad esplorare e costruire percorsi di resistenza all’eteronorma che innerva il nostro sistema educativo, la scuola e persino il nostro stesso modo di essere educatrici/educatori.
Pubblichiamo qui il report del tavolo scuola che si trova anche sul sito della rete marciona. Buona lettura!

Il 7 e 8 novembre la rete nazioanale tfq, nata nel contesto di Marciona2020 durante la prima fase pandemica, ha deciso di convocarsi come rete dopo l’esperienza del Coordinamento Pride tfq della scorsa estate, che ha costituito l’avvio di un percorso politico collettivo transterritoriale nazioanale attraversato da singol*, realtà organizzate, collettivi e altre reti territoriali.
Durante l’assemblea si sono tenuti diversi tavoli di discussione e tra questi un focus sulla questione Scuola, ora più che mai al centro del dibattito pubblico. Abbiamo scelto di condividere le riflessioni emerse considerata l’urgenza dell’argomento e della presa di parola transfemminista queer.
TAVOLO SCUOLA
Il tavolo scuola ha decostruito le retoriche sull’istruzione come campo “neutro” o come “servizio” identificando la sua funzione di riproduzione sociale istituzionalizzata. Abbiamo riflettuto su cosa significhi questo proprio ora nel contesto pandemico e in regime di didattica a distanza, sia dal punto di vista della “cura” che dal punto di vista delle tecnologie. Questo ci ha permesso di smascherare le iniziative “dall’alto” su genere e parità e allo stesso tempo affinare le nostre strategie per contrastare binarismo di genere, razzismo classismo nell’educazione. Sono emerse proposte operative che ci porteranno a continuare questa discussione in modo più allargato.


a) Scuola e lavoro riproduttivo: l’educazione è (anche) lavoro riproduttivo? Welfare? Lavoro di cura? Lavoro e basta? Quale è il rapporto/conflitto tra le lotte per il diritto all’istruzione e le lotte delle soggettività femminilizzate messe al lavoro dal sistema educativo?

In tempo di pandemia si sono polarizzate due distinte visioni del sistema educativo: la scuola come welfare/lavoro riproduttivo o la scuola come “didattica pura”. In particolare questa dicotomia si è evidenziata nel dibattito sull’apertura o chiusura in tempo di pandemia, in modi alquanto diversi a seconda della visione complessiva dell’educazione oppure la stessa visione ha portato a posizioni contrapposte.
Un primo esempio è rappresentato dalla contrapposizione tra il diritto alla salute degli insegnanti e l’idea che la scuola sia una priorità, quando genitori e insegnanti sembravano sostenere uno o l’altro, mettendo in discussione il diritto di sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori a settembre, quando le richieste di un’apertura in sicurezza e con investimenti di denaro e spazi erano state disattese. Per noi la relazione tra welfare e lavoro riproduttivo è inscindibile, e crediamo che la decostruzione di questa dicotomia sia necessaria per riconoscere e connettere le lotte sindacali all’interno dell’educazione. Un secondo esempio, più “interno” ai femminismi e transfemminismi riguarda la funzione del sistema educativo, dove alcune considerano la scuola come una forma di erogazione di welfare o come un “servizio” mentre altre vedono l’importanza della scuola nella sua funzione pedagogica, educativa e di costruzione di conoscenze. Questo porta a non comprendere l’esigenza, espressa da tantu di noi, di tenere aperte le scuole fin quando possibile, in questo periodo pandemico, poiché si scambia la rivendicazione per un diritto universale all’istruzione, il valore della relazione nel sistema educativo (non solo relazione con chi insegna ma, soprattutto relazione tra pari e costruzione di socialità sempre più complesse a seconda dei gradi di istruzione) con mera complicità con Confindustria e con l’esigenza di mantenere alti livelli di produzione a discapito della salute pubblica. Riteniamo che queste dicotomie siano solo astratte e non tengono conto della materialità dell’educazione come istituzione, da un lato, e processo di formazione di socialità al contempo: si tratta di vera e propria riproduzione sociale istituzionalizzata e organizzata. Non riconoscere la dimensione della riproduzione sociale tra le funzioni della scuola, concentrandosi sulle funzioni di “servizio”, non permette di comprendere come l’alternativa alla scuola resti esclusivamente la famiglia, u
na delle istituzioni che da sempre riconosciamo come sede della violenza di e del genere. La visione della scuola come mero welfare è pericolosa perché finisce per considerare la scuola come erogatrice di un “servizio” e le “famiglie” e studenti come “utenti”, e questo si avvicina molto alla visione dei comitati NOGENDER che ritengono sia diritto dei genitori influire sull’offerta didattica, in particolare per ostacolare e sabotare qualsiasi progetto di educazione alla sessualità, affettività, e genere. Allo stesso tempo la visione della scuola come “didattica pura” dimentica la dimensione del lavoro “riproduttivo” o “di cura (lavoro affettivo, relazionale) pagato” che in essa si svolge, come se questo avesse meno dignità del lavoro didattico-educativo. La volontà di alcuni femminismi di cancellare la dimensione riproduttiva dal “lavoro” dell’educazione sembra provenire dall’interiorizzazione di un certo emancipazionismo oppure da una certa misoginia che valorizza la dimensione produttiva del sapere a discapito di quella della “cura”. Sono anni che mettiamo al centro la riproduzione sociale nelle nostre lotte ed in qualche modo la scuola ci sembra luogo privilegiato d’osservazione e intervento perché è il fulcro della riproduzione sociale istituzionalizzata, ed infatti è qui che si giocano le maggiori battaglie su un dispositivo di potere per noi al centro dell’analisi e delle lotte: il genere, all’intersezione con classe/razza/abilità.

Viviamo da decenni lo smantellamento della scuola pubblica, con pochi investimenti e precariato diffuso. Ora più che mai, con la chiusura e il passaggio alla DAD si evidenzia come l’esclusione avvenga all’intersezione tra status economico e fenomeni di razzializzazione delle e degli studenti.

La battaglia sulla redistribuzione non riguarda solo il denaro ma anche le risorse tecnologiche – da anni facciamo battaglia su internet pubblico accessibile, ad esempio. La DAD richiede accesso universale alla tecnologia, ma quale tecnologia? Le grandi piattaforme come Google già offrono a scuole, insegnanti e student* infrastrutture, spazio e tecnologie gratuitamente e siamo a un passo dalla distribuzione gratuita di tablet da parte di Google o altre multinazionali allu studentu di tutte le scuole, ma ci dovremmo chiedere verso quale scenario si sta muovendo la scuola tentando di rimediare al digital divide appoggiandosi a grandi multinazionali: dovremmo tenere conto del fatto che esistono tecnologie libere e open source. Come avviene la distribuzione? Sta iniziando una strana selezione meritocratica in alcune realtà, chi sa utilizzare i device li riceve e chi mostra di non saperli usare adeguatamente invece resta escluso, questo è un altro lato dell’ingiustizia e arbitrarietà diffusa in questo momento pandemico.

Allo stesso tempo dobbiamo tenere conto del diffuso analfabetismo digitale e lo stato emergenziale in cui versa la scuola in questo momento. La questione allora diventa, più che il contrasto in toto alle piattaforme proprietarie, come usare in maniera creativa questi strumenti che ci vengono dati, per ridurre il danno e per aprire spazi digitali relazionali in particolare per quell* studenti con certificazioni, bollini, etichette, fragilità socio economiche? Ad esempio: fare pressioni sulle case editrici per avere i libri online. Se riuscissimo a mappare i nostri bisogni riusciremmo a fare autoformazioni per aiutarci a limitare i danni. Sulla tecnologia resta un problema, se ne parla sempre da un punto di vista meramente tecnico, mentre andrebbe affrontata anche dal punto vista umanistico per imparare ad agire la tecnologia e non essere “agiti” da questa, o alienat* attraverso di essa.


b) Scuola e lavoro “del genere”: come il gender entra nelle scuole ma nel modo sbagliato? Come riappropriarci del diritto di parola su questo nel sistema attuale (linee guida parità di genere/educazione civica/legge Zan ecc…)

Viviamo da anni le conseguenze di una postura politica precisa dall’alto rispetto alla possibilità di occuparsi di questioni di genere nelle scuole: l’ambiguità delle direttive/linee guida/leggi che non permettono di capire cosa si può o non si può fare e isolano le persone che tentano di lavorare in questo senso.

Lo abbiamo visto accadere con le “Linee Guida Educare al rispetto: per la parità tre sessi, la prevenzione della violenza di genere di tutte le forme di discriminazione” del 2015, dove si afferma che “tra i diritti e doveri e tra le conoscenze da trasmettere non rientrano in nessun modo le ideologie Gender”, senza specificare a cosa esattamente si riferisca il testo. Lo vediamo accadere oggi con la modifica al comma 3 dell’art.6 della Legge Zan, che, se da una parte istituisce una giornata nazionale contro le discriminazioni, dall’altro rimanda all’approvazione delle singole scuole, previa firma del “patto di corresponsabilità” da parte dei genitori, ogni tipo di intervento, anche solo rituale o celebrativo in questo senso. E se all’articolo 8 si rimanda all’UNAR per l’ elaborazione di strategie triennali per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere, noi non dimentichiamo la Strategia Nazionale LGBT del 2013 (http://www.unar.it/wp-content/uploads/2017/12/LGBT-strategia-unar-17_24.pdf ) mai applicata, o le raccomandazioni europee (http://www.comune.torino.it/politichedigenere/bm~doc/raccomandazionecmrec20105.pdf. Quindi se da un lato accogliamo il tentativo, dall’altro continuiamo a chiedere più del ddl Zan e soprattutto delle linee definitive che non lascino spazio ai no gender e che non continuino a lasciarci con le spalle completamente scoperte, ricattabili e obbligati, dove riusciamo, a un’iper-esposizione.

Genere (e castrazione del genere) “si fa” dalle scuole dell’infanzia fino alla fine del ciclo scolastico, in modo informale e normativo passando per l’etero-sessismo implicito a tutto il sistema educativo e alla società. Il genere “si fa” a scuola costantemente nelle discipline, nella direzione dell’eteronorma, in particolare nelle discipline scientifiche e tecniche, perché spesso anche insegnando la materia si riproduce l’eteronorma. Talvolta questo è più insidioso dell’annoso problema degli insegnanti di religione cattolica, i quali affrontano in maniera esplicita le questioni di cui non dovrebbero occuparsi. Il ddl Zan formalizza che le progettualità di contrasto a questa costruzione normativa del genere devono continuare a superare una serie di passaggi burocratici.

Ovviamente anche noi facciamo e disfiamo il genere a scuola, abbiamo delle strategie e vorremmo implementarne altre. Da un lato approfittiamo di ogni “interstizio” che si dà nella programmazione ufficiale. I progetti su bullismo permettono di parlare di sessismo, omolesbobitransfobia. Focus su cyberbullismo è un altro modo di fare hacking per parlare di genere nelle tecnologie, per parlare della violenza e discriminazione nelle tecnologie, salvo che la maggioranza delle scuole preferisce una lezione della polizia postale a interlocutori “scomodi”. Anche una generica titolazione “educazione alle differenze”, a seconda del contesto, può legittimare il discorso sul genere.

Ma dovremmo essere in grado di attraversare altri “momenti” della programmazione come l’educazione alla salute, dove a parlare di HIV e salute riproduttiva ci sono le ASL, e il grande progetto dell’Educazione Civica. Per quest’ultima materia, nuova di 33 ore annue sono state indicate delle Linee Guida di stampo nazionalista, e serve l’impegno del singolo ad accollarsi quella che si chiama “funzione strumentale” per poterci mettere mano. C’è chi lo ha fatto, cercando di minimizzare le ore obbligatorie sulla “storia della bandiera d’Italia” e puntando sull’Agenda 2030 dell’ONU sulla sostenibilità, che permette di intervenire criticamente su “accesso all’istruzione”, “uguaglianza di genere”, “riduzione delle disuguaglianze tra paesi del mondo”, “ambiente”, ecc… Va d’altro canto presa in considerazione la crescente richiesta da parte delle/degli studenti di affrontare questi temi anche se questo riguarda solo pochi settori/indirizzi dell’istruzione secondaria, come i licei in aree urbane.

Esistono pratiche condivise di/per studenti transgenere e sarebbe il caso di avviare una mappatura, in grado di connettere queste esperienze o utile alla condivisione di materiali e strategie.
Ci sono scuole invece, come istituti professionali “maschili” dove essere una persona LGBTQIA+ è addirittura pericoloso per l’incolumità psico-fisica. Un’altra strategia è quella di invitare dei visiting-teacher LGBTQIA+ a fare lezioni incentrate sulle competenze e non sul gender(!). Così come resta fondamentale ragionare sull’implied learner quando si fanno i programmi per le materie, perché abbiamo interiorizzato che chi impara è neutro, cioè maschio bianco eterocis. Pertanto bisogna individuare e contrastare atteggiamenti eterosessisti espliciti ed impliciti nell’insegnamento delle discipline (rimuovere “l’implied learner”: maschio, bianco, etero, cis…)

Ma abbiamo bisogno di qualcosa di più delle strategie che singolarmente possiamo mettere in campo e che presuppongono coraggio e contesti non troppo escludenti e reazionari. Abbiamo già tentato di mettere in condivisione materiali ma la modalità “drive” si è mostrata poco funzionale perché diventa un’accumulazione di materiali poco ordinata e quindi poco fruibile. Ciò non toglie che vada trovata una modalità più efficace. Inoltre i “materiali” che vengono accettati nelle scuole devono avere legittimità accademica, non possono essere autoprodotti nel momento in cui usciamo dalla lezione alla singola classe ma cerchiamo di implementare cambiamenti più strutturali attraverso progetti, funzioni strumentali, ecc. Inoltre chi si relaziona alle scuole con “progetti” dall’esterno segnala gravi difficoltà ad interfacciarsi come realtà e collettivi informali. Per questo riteniamo necessario trovare forme di output dell’attivismo, forme “istituenti” che siano capaci di impattare a livello istituzionale, canali per cambiare le istituzioni. Avere un soggetto informato capace di relazionarsi in maniera dialettica e conflittuale con la scuola potrebbe essere tatticamente importante. Vorremmo quindi organizzare incontri per capire come dare una forma sia legale, quali sono le priorità e gli obiettivi, come avviene la formalizzazione burocratica.